Durante i miei diciotto anni napoletani il golfo era il cortile della Sesta Flotta Americana. Quelle navi da guerra, il loro grigio chiaro, facevano parte del panorama. Una portaerei con vista Vesuvio era all’ancora davanti a Castel Dell’Ovo. Da una finestra assistevo a decolli e atterraggi degli aerei da caccia. Il chiasso delle loro accelerazioni sovrastava quello della città. Quando salpava l’intera squadra navale il golfo sembrava vuoto.
Napoli era la principale base americana nel Mediterraneo. La città non la percepiva come una minaccia, lo sbarco di migliaia di loro in libera uscita era al contrario una importante occasione di commercio. La servitù militare dava contropartite.
In questa primavera nel Mar Nero le navi da guerra lanciano missili contro città costiere.
Ricordo inoltre il mio stupore quando su un libro ho letto che l’incrociatore italiano, Eugenio di Savoia, aveva bombardato dal mare Barcellona, nell’inverno del 1937, durante la guerra civile spagnola.
Qualcosa urta dentro di me: navi che bombardano porti. Un atto scellerato che dovrebbe comportare il divieto di attracco a quelle navi in qualunque altro porto del mondo.
Ne risento come se bombardassero Napoli.
Dev’essere perché le città di mare scambiano con il mare la vita, non la guerra.
Dev’essere perché la stessa acqua collega le città di costa, sbattute dalle stesse onde.
Dev’essere perché il corpo si è fatto asciugare addosso il medesimo sale.
Dev’essere perché il mare è una placenta e le terre emerse stanno tutte avvolte nel suo grembo.