QUANDO LA GUERRA SEQUESTRA IL TEMPO CHE VIENE A MANCARE…
In questi tempi sventurati si può perfino sentir dire, come ha affermato Richarch Nugee, un ufficiale anziano dell’esercito britannico, che “cambiando il modo in cui operiamo, attraverso i domini terrestri, marittimi e aerei, l’Esercito farà la sua parte nella lotta contro il cambiamento climatico”. Un ossimoro inammissibile, eppure suffragato da voci non appartenenti solamente al mondo militare. Basta ricordare che l’opposizione ad una trasparenza riguardo all’impatto degli apparati militari sulle emissioni climalteranti ha impedito che nei protocolli internazionali siglati nelle 26 Cop fin qui tenute, fossero conteggiati gli effetti devastanti dovuti all’impiego e alla costruzione degli armamenti armamenti. Si valuta che il Pentagono sia il sesto produttore mondiale di CO2 e il primo detentore di materiale radioattivo: messo sotto accusa dal Washington Post, ha annunciato di aver ridotto il consumo di petrolio del 41% rispetto ai livelli del 2005 e le emissioni di gas serra del 23% rispetto ai livelli del 2008. Ma perché è tollerato questo clamoroso “buco” quando si fanno più stringenti gli obbiettivi di “net zero” entro il 2050? Io ritendo che sia perché persino
nella lotta al cambiamento climatico non si prevede il ripudio della guerra. Anzi, i combustibili fossili, assieme al cibo e ai minerali rari, rimangono nel mirino dell’apparato industrial-militare, che si contende un mercato in continua espansione.
La provocazione di papa Francesco, fin dalla pubblicazione della Laudato Sì, si è rivelata realistica nel tener contemporaneamente in conto tre emergenze a breve – quella del peggioramento brusco del clima, quella dell’insopportabilità dell’ingiustizia sociale e quella dello spreco indebito delle risorse della biosfera – che, oltre a sovvertire l’agenda planetaria e la direzione dello sviluppo in corso, si possono affrontare solo se si condivide pienamente ed a livello globale il diritto della pace. La distruzione delle persone innocenti e di un soggetto ancora più innocente – la natura, da cui dipendiamo fortemente – richiedono di mettere fine alle guerre, altrimenti saranno esse a finire noi.
Negli ultimi decenni i conflitti – “una guerra mondiale a pezzi” – si vanno accumulando e intensificando, mentre la distanza tra popolazioni e governanti, anziché ridursi, si accentua proprio in quanto la percezione dell’emergenza climatica e del diffondersi della povertà e dello sfruttamento di persone, vivente e natura rafforzano una diffidenza di massa nei confronti della violenza e degli scontri armati per imporre una illegale supremazia. Sotto questo profilo, la guerra ucraina rafforza anche in Europa – e non solo nei tradizionali e più lontani teatri di guerra – la sensazione che l’Antropocene, una configurazione non astratta del cambio d’era, mandi un terribile avvertimento alla specie umana destinata al disastro, se non all’estinzione: a meno che la sua impronta ecologica non si riduca notevolmente in un futuro assai prossimo. Questa percezione rafforza l’imperativo di rivedere fondamentalmente gli orientamenti filosofici e politici dominanti e di rimodellare urgentemente le basi per una grande transizione verso una pace duratura e un’ecologia integrale.
Quello che si definisce l’Antropocene, come molte grandi rappresentazioni, è allo stesso tempo tanto affascinante ed evocativo, quanto destrutturante e nebuloso. Quando passioni e visioni del mondo di vecchia data vengono rifratte attraverso un nuovo prisma, come sta accadendo in questa nuova era, viene rivelato un ampio spettro di prospettive, alcune delle quali richiedono prove di discontinuità col passato. Si tratta, in particolare, della difficoltà oggettiva di affrontare un’interpretazione della distruzione in atto del sistema Terra, nel senso non solo delle formazioni sociali contingenti che hanno provocato e stanno generando la crisi, ma dell’intera nostra specie che ci ha preceduto. E’ in discussione il sistema di incivilimento storicamente perseguito. Crescere e dominare il mondo naturale non rimane più l’obbiettivo primario e dato per scontato, ma si vanno riformulando profondamente la comprensione storica, la visione futura e l’azione collettiva. La scienza ci ha convinto che tutto – energia, materia, spazio, tempo – proviene da un processo datato miliardi di anni fa e che l’individuo e la società risultano interconnessi con la natura attraverso infinite cosmogenesi, che hanno caratterizzato l’evoluzione dell’Universo, il quale non ha un centro e di cui l’homo sapiens occupa solo una parte infinitesima. La novità, ancora non pienamente assimilata, ha le proporzioni di una rivoluzione copernicana. L’autoconsiderazione, sfociata talora in aggressività, che ha giustificato a lungo nei secoli il pensiero economico e scientifico suffragati da modelli interpretativi influenti e da imponenti opere e manufatti della nostra specie – apparsa sulla terra da meno di un milione di anni – non ha più quella forza esplicativa che avevamo ereditato dalla narrazione del Rinascimento e dell’Illuminismo o dal determinismo newtoniano. Di conseguenza, dovremmo riflettere su come le guerre più recenti, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale conclusa con le esplosioni atomiche sul Giappone e seguita da una interminabile guerra fredda, abbiano logorato nella maggioranza della popolazione l’alone risolutivo che antiche narrazioni attribuivano alle contese in armi e, ancora, capire come la forza del pacifismo assuma invece oggi un carattere permanente e non solo morale. Una forza dovuta anche alla constatazione di come sarebbe impossibile rigenerare quanto viene depredato, distrutto e “ucciso” dallo scatenamento di una potenza bellica incommensurabile rispetto allo spazio e al tempo biologico di cui facciamo esperienza.
Se un “noi” indifferenziato guida addirittura un cambiamento geologico come quello dell’Antropocene qui solo accennato, allora bisogna cogliere il significato storico, mondiale, della rottura del sistema Terra. Come dice Clive, “versare vino ideologico in questa nuova bottiglia geologica non va bene: la nuova condizione olistica che dobbiamo affrontare richiede un nuovo pensiero olistico”. E aggiunge: “L’Antropocene apre i nostri occhi in parte, ma nasconde i modi in cui gli impatti antropici emergono e agiscono attraverso società lacerate da disuguaglianza, bigottismo e dominio”. C’è quindi la politica da rimettere in sesto e a cui dare alimento democratico: il rinnovamento dei suoi programmi è sul banco di una possibile ricostruzione, a partire dal farsi carico delle emergenze rese più acute con il trascorrere del tempo. Altro che depoliticizzazione e esecutivi privi di rappresentanza!
Penso che la dichiarazione dell’Antropocene come una “età dell’umanità” suoni un allarme inconsueto, un forte richiamo a svegliarsi dalla difficile situazione contemporanea, dando l’opportunità per attirare l’attenzione sui fattori culturali ed economici che ne definiscono i caratteri. Fattori inevitabilmente legati ai motori materiali dell’innovazione tecnologica e sociale, ai modi di produzione e al conflitto di classe, in una continua danza di condizioni soggettive ed oggettive. Il percorso a cui dedicarsi dovrebbe essere quello di una ricostruzione di un “noi” globale.
L’assunto posto al centro del ragionamento che segue è che sia in corso un profondo cambiamento storico che lega persone, luoghi e la Terra in un unico sistema globale, esposto all’incombere di tre emergenze documentate ed indilazionabili, che richiamano primariamente a loro soluzione il diritto della pace, la salvaguardia della biodiversità, la riconversione del sistema centralizzato delle energie fossili.
LA FOLLIA DELLA GUERRA E IL DIRITTO DELLA PACE
Con il trascorrere dei giorni, non solo la guerra in Ucraina si mostra per quello che sono tutte le guerre – semina di odio e violenza, distruzione di vite, famiglie, umanità, cultura e natura – ma spalanca davanti ai nostri occhi il baratro nucleare, senza che si manifesti l’assillo necessario a fermare un’escalation fino a due mesi fa impensata e poi del tutto prevedibile, man mano che diventava palese la sua natura di scontro tra superpotenze. Assistiamo al proliferare di enormi interessi attorno agli apparati militari e alla produzione bellica, alla contesa di materie prime strategiche e di mercati, assieme a un’eccitazione che gioca con la pretesa di dominare la potenza tecnica di armi sempre più distruttive.
Dalla guerra si esce investendo sulla pace, non finanziando la guerra. Per questo vanno individuate proposte che sperimentino vie nuove, non rassegnate: stare in campo, manifestare, educare alla pace, affermare parole e simboli radicalmente altri da quelli che stanno prendendo corpo nelle menti di chi, per retoriche che guardano al passato, rischia di non vedere la semina di sofferenza, né la concretezza di uno scenario che può mettere fine alla vita civile e di democrazia sociale in Europa, sperimentata conflittualmente – eppure pacificamente – anche nella lunga fase della guerra fredda.
Anziché chiederci “chi può vincere” la guerra, dobbiamo operare per disattivarla: questo è l’imperativo del tempo che scorre verso l’irreparabile. Dobbiamo salvare vite umane messe a rischio da ordigni sempre più micidiali e salvare i territori lacerati e avvelenati, così come le aree attorno alle centrali nucleari civili di cui Chernobyl rappresenta il monito più terribile.
Senza la percezione e la cura delle interconnessioni tra la società umana, l’insieme dei viventi, il mondo della natura e l’universo intero, ogni nuova guerra rischia di farsi globale, fino a scatenare, per una logica intrinseca, la potenza incontrollabile e incommensurabile dell’arma atomica, rendendo irreversibile la distruzione della vita sulla Terra. E’ allora necessario chiedere, pretendere, che le nazioni non formalmente in guerra, come l’Italia e tutti gli Stati membri dell’Unione europea, operino da subito per far cessare il fuoco anziché alimentarlo, e per mettere all’ordine del giorno la denuclearizzazione del mondo, sulla strada dei trattati ONU sottoscritti dalla maggioranza degli stati, ma disattesi dai governanti delle potenze che possiedono gli ordigni atomici. Una simile impostazione è evidentemente alternativa all’invio di armi ai belligeranti e all’aumento della spesa militare ormai generalizzata.
Ci troviamo su un pianeta che dopo una surreale, esponenziale esplosione energetica, sta collassando per crisi ambientale, picco delle risorse, immensi sistemi tecnologici che si illudono di dominare la situazione militarmente e intanto ci divorano.
Se non si riesce a porre fine a questa guerra nefasta che ha già distrutto l’anima del mondo prima ancora che le istituzioni che ne assicurano la vita, è perché non è stato esorcizzato lo spettro della vittoria. È un luogo comune, ma del tutto falso, che la vittoria sia la conclusione migliore di una guerra. E forse per l’Ucraina il dramma si è fatto più denso quando ha cominciato a credere che la guerra potesse vincerla davvero con tutti gli incoraggiamenti e l’altruismo sospetto dell’Occidente, con gli aiuti di ogni genere, politici, militari, economici e con il suo straziato popolo narrato come esercito, oltre cinque milioni di profughi, e le città bombardate e distrutte.
Perdere non è facile, ma vincere affermando la pace è più difficile. Gli attivisti ambientali, molti dei quali impegnati da più di tre decenni contro i cambiamenti climatici, hanno provato a vincere bandendo ogni violenza. Tra di loro gli studiosi dell’Ipcc, Climate Action Network e tante altre Ong, le reti di enti locali, i movimenti di Fridays for Future ed Extinction Rebellion, che finalmente hanno trovato ascolto. Anche per loro adesso cominciano le fatiche della pianura. Mentre la scienza fornisce i dati di quanta CO2 l’umanità può ancora emettere per stare sotto 1.5 °C, le opzioni di come rimanere nel budget restante è una questione prettamente politica e sociale, che coinvolge tutti settori economici, le infrastrutture e la vita quotidiana delle persone con i relativi conflitti settoriali e politici che nascono a tutti i livelli, come si è sperimentato a Civitavecchia. E questo vale su tutti i territori, per tutte le nazioni, per interi continenti.
Chomski ammonisce che una vittoria al posto della pace nello scontro tra Biden e Putin sarebbe “una condanna a morte per la specie, senza vincitori, dato che siamo ad un punto di svolta nella storia dell’umanità che non si può ignorare”.
Vera sapienza è la ricerca di una alternativa alla vittoria per mettere fine alla guerra. Una possibilità sta nel dialogo, nel negoziato, nel riconoscere ciascuno le ragioni dell’altro, nello “scambiarsi con l’altro”, nel sapere che la sicurezza dell’altro è la sicurezza anche propria, perché la sicurezza non consiste in uno “status”, ma in un rapporto: o è di tutti o non è di nessuno, come già aveva realizzato la saggezza dell’ONU, prima che uno scenario di dominio di pochi fosse costretto a misurarsi con la pandemia imprevista, con gli insuccessi di 26 Cop consecutive, con guerre mondiali a pezzi con sullo sfondo l’arma nucleare..
Nella Costituzione Italiana non a caso prevale il diritto “della” pace, cioè la nascita di un nuovo diritto, perché, oltre all’art. 11, il diritto “della” pace ispira e segna l’intero testo della Costituzione, realizzato con la Liberazione del 25 aprile, non per costruire una liberal-democrazia, cui continuamente fa riferimento un atlantismo aggressivo, ma una democrazia sociale, contrapposta al regime sconfitto e garantita dal governo parlamentare e dai poteri dal basso per dare sostanzialità alla sovranità popolare, che non è tale se si riduce solo al voto.
DIFENDERE LA BIODIVERSITÀ, RETE DEL VIVENTE
In un connubio fecondo tra la scienza, della terra e quella cosmologica e nella rivoluzionaria rappresentazione della realtà che la relatività, la quantistica e la neurologia rappresentano attraverso modelli che possono contraddire perfino nostri sensi, è difficile tenere in vita un umanesimo che continua a credere che noi siamo il soggetto di un mondo da dominare, a dispetto della sua autonomia e delle leggi che lo governano e delle sue necessarie interconnessioni, che caratterizzano, mantengono e alimentano la rete della vita. Serve altresì un’idea nuova di sapere, di scienza, di educazione critica ed un conseguente comportamento sociale.
Cambiare il paradigma di civilizzazione è essenziale se vogliamo ancora vivere in questo pianeta. Non a caso l’enciclica “Fratelli Tutti”, che mantiene uno sguardo lungo anche sulle relazioni sociali – dalla produzione al consumo al lavoro – sostiene che bisogna passare dall’essere umano come “dominus” della Terra al “frater” (fratello/sorella) con tutto il vivente, sia nel senso mistico di San Francesco, sia nel senso moderno, che verifica come tutti gli esseri viventi abbiano la stessa base biologica, dalla cellula originaria, di 3,8 milioni di anni fa, passando per i dinosauri e arrivando a noi umani. “Dobbiamo – come dice Boff – attuare il cambiamento da una cultura di accumulazioni di beni materiali per il consumo senza ragioni e di ricchezza per un piccolo gruppo, ad una cultura di beni umano-spirituali fondati sulla solidarietà, la cooperazione, la cura degli uni verso gli altri e della natura: una autentica conversione”. Il sistema capitalista e neoliberista non sostiene la volontà politica di fare questo passo e nemmeno fa proprio il principio di precauzione con cui dovremo sempre più relazionarci in ogni nostro giudizio, previsione, comportamento. Agitando incessantemente la pretesa di una crescita ormai impraticabile, stiamo correndo nella direzione di una grande tragedia ecologico-sociale, che riduce la capacità di sopravvivenza di tutte le forme di vita. Spesso non teniamo conto di eventi di svolta, come, ad esempio, avvenne nel 2016 quando il ghiaccio su entrambi i poli si sciolse per la prima volta o nel 2019 quando gli incendi coprirono vaste zone di tutti i continenti e andarono in fumo circa 12 milioni di ettari dell’Amazzonia. Quando nella storia della terra succede qualcosa del genere e in maniera aggravata col trascorrere del tempo, si dice che il passato sia la chiave per capire il futuro. Svolgendo il film della storia geo-biologica del pianeta, si è capito che le estinzioni di massa non avvengono dall’oggi al domani, ma nell’arco di centinaia di migliaia di anni, fino ad arrivare ad brusco picco, che segnala un cambiamento non più lineare. E si è riscontrato come, dopo 540 milioni di anni, eventi catastrofici abbiano già distrutto gran parte della biodiversità del nostro pianeta almeno cinque volte. Successivamente, a valle di ciascuna catastrofe, sono emersi nuovi mondi vegetali e animali diversi. Tuttavia, occorrono molti milioni di anni perché si sviluppino nuovi ecosistemi diversificati, in cui nuove specie emergono insieme alle specie sopravvissute. Purtroppo, dobbiamo allarmarci perché, questa volta, tutto sta succedendo 250 volte più velocemente di soli 500 anni fa. Attualmente il tasso di mortalità registrato nella rete del vivente è da 1.000 a 10.000 volte superiore ai decessi di fondo registrati dai geologi e dai paleontologici, al punto che il superamento di una certa soglia potrebbe addirittura innescare una reazione a catena ed una estinzione di massa, almeno per alcune specie.
Secondo gli studi più recenti, fino al 70 percento di tutti gli insetti in Europa è scomparso dagli anni ’80. Inoltre, quella che stiamo osservando negli oceani, in questo momento, è di fatto la peggiore delle estinzioni di massa mai registrata dall’uomo. La perdita di biodiversità di cui siamo direttamente responsabili a causa dello sfruttamento senza precedenti della natura, si proietta nelle previsioni in misura del 75% di scomparsa delle specie animate entro la fine secolo. Poiché il livello del mare è in crescita, lo spazio abitativo diventerà più piccolo, mentre aumenta il numero di persone sul pianeta: questo porterà ad ulteriori conflitti e al consolidamento di una convinzione ormai diffusa in molti “think tank” della destra internazionale: che non ci sia posto per tutti sulla Terra.
I cinque eventi che si sono rilevati catastrofici dalla comparsa della vita sul nostro pianeta forniscono indizi su come la biodiversità e gli ecosistemi potrebbero evolversi. Quattro di essi sono stati provocati da attività vulcaniche, mentre il più recente è stato provocato dalla caduta di un enorme meteorite. In tutti i casi, la ricostruzione degli ecosistemi ha richiesto tempi assai superiori a quelli entro cui si è svolta l’evoluzione dell’homo sapiens. Ai nostri giorni, con la crescita della povertà mondiale e sotto la minaccia climatica e il diffondersi di sindemie, è indispensabile ascoltare contemporaneamente il grido degli scarti umani, degli sfruttati e quello della Terra, che ospita la rete interconnessa della vita. Una rete ormai vulnerata in molti suoi snodi da cui dipende anche la sopravvivenza umana.
UNA RAPIDA RICONVERSIONE DAI FOSSILI ALLE RINNOVABILI
L’energia che fluisce nell’Universo, si deposita e mantiene nelle profondità della Terra, si sprigiona dalle stelle o si mostra sotto forma di informazione nello spazio insondabile dei buchi neri, ha da sempre attirato un’attenzione ammirata e parimenti temuta da parte della specie umana. I grandi miti sono stati spesso alimentati dal desiderio di disporre di potenze superiori a quelle fornite direttamente all’uomo dalla natura, ma che l’intelligenza, la conoscenza e la scienza avrebbero cercato di ammansire prelevandole dall’ambiente attraverso le formule e le tecnologie più svariate. Un interesse, quello umano, che si è rivolto inizialmente verso le molteplici forme attraverso cui assicurare l’alimentazione e l’insediamento della vita (gli alimenti, l’acqua che scorre, la fiamma che scalda, l’argilla impastata col fuoco o i vegetali selvatici e poi coltivati o. ancora, gli animali cacciati o addomesticati) e, poi, verso tutti i tipi di trasformazioni a maggior rendimento ottenute per combustione di comburenti scavati nel terreno (la torba ed i fossili vegetali), fino ad arrivare ad un impiego di fonti ad alta densità, che fornissero stabilità, potenza ed una presunta inesauribilità ( carbone, petrolio, gas ed il nucleare). Il cammino energetico è stato segnato così da continui processi di concentrazione e centralizzazione, almeno fino a quando il brusco cambio climatico in corso ha spostato l’attenzione verso quei fenomeni naturali, complessi, diffusi e relativamente lenti, attraverso cui si
compiono, in presenza della forza di gravità, i cicli interconnessi dei venti, delle acque e delle biomasse il cui bilancio è aggiornato continuamente dall’attività del Sole. Cicli attraverso cui l’energia da un lato si degrada ordinatamente per compiere lavoro utile, ma, dall’altro, si rinnova continuamente, sottostando alle regole della meccanica e della termodinamica, e, soprattutto, attingendo continuamente energia dallo spettro solare filtrato dall’atmosfera che circonda il nostro Pianeta.
Entro questo quadro, che ha accompagnato la storia delle società umane, il cambio climatico in corso non dipende più solo dagli equilibri naturali (l’effetto serra tra questi), ma è significativamente originato dall’infaticabile operosità umana ed è dovuto in gran parte agli enormi flussi di energia prodotti dalle fonti fossili e nucleari che hanno da tempo alterato la “finestra” fragile entro può riprodursi la vita. L’alterazione umana è così profonda e difficilmente reversibile che il futuro non può che essere affidato a fonti naturali rinnovabili: ciò significa che siamo di fronte al più profondo ridisegno dei flussi energetici al servizio della società dall’inizio dell’età industriale.
Prenderemo in considerazione da subito l’ostinato persistere del vecchio modello, ponendolo a confronto con le caratteristiche alternative delle fonti alimentate dal sole, dal vento e dall’acqua. Per vecchio modello intendiamo: quello sostenuto dal petrolio, anche se in misura decrescente, dato che in proiezione il suo consumo verrà sostituito sia nella produzione di elettricità che nel settore dei trasporti; quello alimentato dal carbone, ancora prevalente in molti Paesi, ma unanimemente da sostituire; quello infine del gas e del nucleare, cui va riservata una particolare attenzione, sia per le aspettative che le grandi corporation Oil &Gas riservano a queste due fonti anche nel futuro, sia perché le tecnologie di estrazione, raffinazione, impiego e trasporto di esse sono in decisa evoluzione in questa fase di transizione e, per di più, a fronte dei vincoli conseguenti alla invasione russa dell’Ucraina. Il panorama dei flussi dei fossili e del materiale fissile è oggi rimasto quasi inalterato ed è all’origine di atroci conflitti e della mobilitazione di ingenti quote di armamenti. Il complesso finanziario-industriale e militare è da sempre mobilitato per fornire sostegno ad un sistema fortemente centralizzato e ad alta esposizione di capitali, cui sono riservati ingenti sussidi pubblici. Storicamente, in base a rapporti di dominio e di potenza, la direzione dei flussi fossili e dei materiali fissili è stata da sempre posizionata incanalata verso i paesi più ricchi, a partire dai pozzi di estrazione e di prima raffinazione ovunque si trovassero.
La differenza tra fonti fossili e rinnovabili è – oso dire – sconvolgente, anche se il “mainstream” tende a portare confusione ed a minimizzare non tanto gli aspetti tecnologici, quanto quelli economici, ambientali, sociali di una così profonda riconversione di un sistema che ha segnato fin qui lo sviluppo di tutta l’era industriale. Vediamone le implicazioni.
I fossili sono un’eredità di un passato antecedente la presenza umana, mentre le rinnovabili convivono con l’ambiente naturale in cui si evolve la società presente. I primi sono oggetto di proprietà, richiedono grandi infrastrutture per il trasporto e la combustione e sono sottoposti alle leggi del mercato; le seconde, al contrario, si configurano e stabilizzano localmente sulla base dell’andamento dei fenomeni atmosferici e meteorologici, dello scorrere delle acque, della qualità del suolo. I primi possono essere trasportati e consumati a distanza; le seconde insistono sul territorio e appartengono alle comunità locali, possono essere stoccate e consumate in forme compartecipate.
Come si può intuire i due modelli non sono integrabili soprattutto quando prendiamo a riferimento la soluzione delle emergenze di cui abbiamo trattato in precedenza.
I due differenti sistemi energetici – il primo ad elevata densità di potenza e destinato a sistemi di produzione centralizzati, il secondo con potenze relativamente minori ma a diffusione estesissima, praticamente accessibile in ogni parte del globo – sono oggetti e soggetti di una svolta profonda e ancor più definitiva di quando si è passati dalla combustione della legna vegetale a quella di carbone, petrolio e gas. Il passaggio da uno all’altro sistema non riguarda quindi solo la geopolitica, ma la cura della natura e della Terra, diventata obbiettivo primario per la sopravvivenza della biosfera e financo un passo in avanti verso il ripudio della guerra.
Mi soffermo ora più in dettaglio sul destino del nucleare, dato che viene dato da più parti come candidato protagonista di un improbabile futuro prossimo. Era il 26 aprile 1986 quando il reattore numero quattro di Chernobyl esplose. Fu una catastrofe, il più grave incidente nucleare della storia. Una ferita non rimarginata, dopo 36 anni, anche se oggi il territorio non appare più come un deserto post apocalittico, perché è sede di una riserva naturale creata per isolare i resti della struttura. Ma l’isolamento è stato rotto nientemeno che dalla guerra: sono entrati i soldati russi e i mezzi corazzati di entrambi i contendenti, evocando lo spettro di un conflitto in cui la radioattività avrebbe spalancato scenari da incubo. Purtroppo, Chernobyl o Fukushima ci ricordano che il nucleare è per sempre, in contrasto con una narrazione che vorrebbe convincerci che l’atomo potrebbe essere la soluzione dei problemi energetici. L’orrore della guerra in Europa richiama in modo angosciante l’illusione di avere a disposizione energia densa e concentrata non solo a fini irreparabilmente distruttivi (le bombe), bensì governata con tecnologie che offrano autonomia energetica in un quadro geopolitico dato in grande mutamento (i reattori nucleari sono possibili obiettivi di missili e bombe). La relazione tra la densità energetica e il tempo entro cui la natura e la vita possono disperdere gli effetti deleteri di una trasformazione prodotta artificialmente dall’uomo, fa rifletter come, su tempi storici, la fissione e la fusione di nuclei atomici, pur in uno spazio ristretto, corrispondano alla combustione istantanea di decine di migliaia di tonnellate di carbone o alla caduta da grandi altezze di enormi masse d’acqua: una prospettiva che, messa sotto questi termini, metterebbe in discussione la responsabilità della presenza umana sulla Terra e raggirerebbe la presunta progressività di un ininterrotto cammino di incivilimento.
La crescita delle rinnovabili in chiave sostitutiva ai fossili sarà dirimente per l’obbiettivo di zero emissioni nette entro il 2050. Occorrerà quindi affrancarsi dai flussi sopra descritti per fossili e nucleare e sconvolgerne la conformazione, per introdurre rispetto al presente multipli di energia rinnovabile sul territorio e off-shore, nonché curare l’efficientamento e l’elettrificazione della rete energetica. La capacità del solare fotovoltaico dovrà aumentare di 20 volte nei trent’anni che abbiamo davanti e quella dell’eolico di 11 volte, accompagnando una secca riduzione dei consumi. I flussi, insomma, non avranno più origine dalle viscere della terra o dalla profondità dei mari per solcare le acque e i terreni fino ai punti più lontani, ma si comporranno in sede locale, per cui il mix di fonti naturali potrà anche essere diverso da territorio a territorio, purché sia il più efficiente. In effetti. le mappe globali di sole, acqua corrente, vento e biomassa dimostrano, sovrapposte, che la somma delle loro intensità a terra o sul mare è pressoché costante in ogni angolo del Pianeta.
La previsione di nuovo lavoro nelle rinnovabili consta di 14 milioni di unità entro il 2030, secondo le stime dell’IEA. Esse andranno distribuite per compensare in primo luogo i posti persi nelle filiere fossili e delle armi. Il modello proposto è infatti anche un appello alla pace ed un robusto ostacolo alla guerra. In definitiva, un settore energetico decentrato in base al criterio della sufficienza territoriale, non solo sconvolge i flussi globali in atto e afferma il primato della biosfera sulla geopolitica, ma favorisce l’equità, combatte l’emergenza climatica, crea interconnessioni con lo sviluppo e l’impiego di tecnologie che, inaspettatamente per il periodo storico che stiamo attraversando, crea nuova occupazione e rende più accessibile e universale il diritto della pace.
La pianificazione del sistema nel suo insieme e la riconversione circolare dello
sfruttamento delle fonti di energia locali negli edifici, nelle comunità, nelle industrie, nelle banche dati, favorirà la dimensione delle comunità energetiche, attraverso cui il contributo attivo degli utenti finali contribuirà a ridurre o addirittura azzerare i flussi di energia ad alta densità, a controllarne il consumo da una dimensione globale governata dalle multinazionali in contesa sui mercati ad una locale, retta con modalità ed una pianificazione democraticamente partecipate.
UN RICHIAMO ALLA REALTA’ DELLO SCONTRO IN ATTO
Purtroppo, il costo delle guerre in corso è molto alto e si va estendendo sempre più nel tempo: l’evoluzione dei sistemi fin qui analizzati dipenderà anche da come i singoli governi bilanceranno il bisogno immediato di combustibili fossili con i cambiamenti a breve termine nella produzione di energia attraverso nuove fonti.
E’ di cattivo auspicio l’orientamento del nostro governo, che tende ad approvvigionarsi a tutti i costi di gas fossile attraverso i metanodotti africani e mediorientali ed implementando le perforazioni nazionali, addirittura nella prospettiva di fungere da “Hub” per l’Europa nel prossimo biennio. Ciò significa aprire un nuovo fronte, fornendo approdo a navi metaniere provenienti dagli USA, che hanno promesso 15 miliardi di metri cubi di gas naturale liquefatto all’UE: shale gas e rigassificatori, anziché 60 GW di eolico e solare subito autorizzabili!
Si tratta di un non senso dal punto di vista del bilancio energetico: per spedire il gas naturale, deve essere purificato, super-refrigerato fino a quando non diventa un liquido e pompato in un’autocisterna refrigerata in quelli che vengono chiamati terminali di esportazione. Una volta a destinazione, è necessario un terminal di importazione per rigassificare il carico. La struttura richiede anni per essere attivata e i tempi di recupero dell’investimento sono di decenni. Quindi, sotto il ricatto di una guerra lunga, potrebbero ritornare in discussione gli obbiettivi che il New Green Europeo si è posto a tutela delle popolazioni e delle generazioni future. Ed anche questa è una “guerra mondiale” sottotraccia, coperta dal fragore degli insulti e delle minacce tra governanti su opposti fronti, eredi di modelli di dominio e sviluppo che fanno la guerra al tempo.