Ricordi. La Jenin di Shireen

Shireen Abu Akleh

«Ci siamo resi visibili ai soldati. Siamo rimasti fermi per circa dieci minuti per assicurarci che sapessero che eravamo lì come giornalisti. Non ci sono stati colpi di avvertimento, così ci siamo spostati verso il campo profughi di Jenin». Shatha Hanaysha, giovane giornalista palestinese, ha raccontato così gli ultimi minuti di vita di Shireen Abu Akleh. Lo racconta, nel suo articolo sul manifesto, Michele Giorgio, che precisa come in quel momento fosse in corso un’incursione dell’esercito israeliano a copertura dell’unità scelta Dovdovan entrata nel campo profughi per arrestare un presunto militante armato del Jihad Islami. Testimonianze dirette riportate da Al Jazeera e altri giornalisti parlano di cecchini dell’esercito israeliano sui tetti delle case circostanti. Le autorità israeliane confermano l’operazione militare nel campo e accusano dell’assassinio della nota giornalista palestinese – anche cittadina statunitense – di Al Jazeera ipotetici “terroristi palestinesi”. Qui riportiamo un articolo dello scorso anno, breve ma assai significativo della straordinaria passione con la quale Shireen interpretava il suo lavoro e della Jenin che i suoi assassini non volevano fosse più raccontata così.

Probabilmente è stata una coincidenza a riportarmi indietro di vent’anni.

Quando sono arrivata a Jenin a settembre, non mi aspettavo di rivivere questa sensazione travolgente. Jenin è sempre la stessa fiamma inestinguibile che ospita giovani senza paura che non sono intimiditi da alcuna potenziale invasione israeliana.

Il successo della fuga dalla prigione di Jalbou è stato il motivo per cui ho trascorso diversi giorni e notti in città. È stato come tornare al 2002, quando Jenin visse qualcosa di unico, diverso da qualsiasi altra città della Cisgiordania. Verso la fine dell’Intifada di Al-Aqsa, cittadini armati si sparpagliarono per tutta la città e sfidarono pubblicamente le forze di occupazione a fare irruzione nel campo.

Nel 2002, Jenin divenne una leggenda nella mente di molti. La battaglia che ebbe luogo nel campo in quell’aprile contro le forze di occupazione è ancora potentemente presente nella mente dei suoi abitanti, anche di quelli che quando avvenne non erano ancora nati.

Tornando a Jenin ora, 20 anni dopo, ho incontrato molti volti familiari. In un ristorante ho incontrato Mahmoud che mi ha accolto con la domanda: “Ti ricordi di me?” “Sì”, risposi, “mi ricordo di te”. È difficile dimenticare quel viso e quegli occhi. Ha continuato: “Sono stato rilasciato dal carcere pochi mesi fa”. Mahmoud era ricercato dagli israeliani quando l’avevo incontrato durante gli anni dell’Intifada.

Ho rivissuto quei sentimenti di ansia e di orrore che provavamo ogni volta che incontravamo una persona armata nel campo. Mahmoud è uno dei fortunati; è stato imprigionato e rilasciato, ma i volti di molti altri si sono trasformati in simboli o meri ricordi per gli abitanti di Jenin e per i palestinesi in generale.

Durante questa visita non abbiamo avuto difficoltà a trovare un posto dove alloggiare, a differenza di dieci anni fa quando dovevamo stare in case di persone che non conoscevamo. A quel tempo, non c’erano alberghi e le persone ci aprivano le loro case .

A prima vista, la vita a Jenin può sembrare normale, con ristoranti, hotel e negozi che aprono le porte ogni mattina. Ma a Jenin abbiamo la sensazione di essere in un piccolo villaggio in cui si controlla ogni estraneo che entra. In ogni strada, la gente chiede alla troupe: “Siete della stampa israeliana?” “No, veniamo da Al-Jazeera”. Le targhe gialle dei veicoli israeliani suscitano sospetto e paura. L’auto è stata fotografata e la fotografia è stata fatta circolare più volte prima che il nostro movimento in città diventasse familiare agli abitanti.

A Jenin abbiamo incontrato persone che non hanno mai perso la speranza; non hanno permesso alla paura di infiltrarsi nei loro cuori e non sono stati spezzate dalle forze di occupazione israeliane. Probabilmente non è un caso che i sei prigionieri che sono riusciti a fuggire provengano tutti dalle vicinanze di Jenin e del campo.

Per me, Jenin non è una storia effimera nella mia carriera e nemmeno nella mia vita personale. È la città che può alzarmi il morale e aiutarmi a volare. Incarna lo spirito palestinese che a volte trema e cade ma, al di là di ogni aspettativa, si rialza per perseguire i suoi voli e i suoi sogni.

E questa è stata la mia esperienza di giornalista; nel momento in cui sono fisicamente e mentalmente esausta, mi trovo di fronte a una nuova, sorprendente leggenda.

Può emergere da una piccola apertura, o da un tunnel scavato nel sottosuolo.

Shireen Abu Aqleh: da 24 anni mi occupo del conflitto israelo-palestinese per conto di Al Jazeera. Oltre alla questione politica, la mia preoccupazione è stata e sarà sempre la storia umana e la sofferenza quotidiana del mio popolo occupato. Prima di entrare ad Al Jazeera , sono stata co-fondatrice di Sawt Falasteen Radio. Nel corso della mia carriera, ho seguito quattro guerre contro la Striscia di Gaza e la guerra israeliana in Libano nel 2009, oltre alle incursioni in Cisgiordania. Inoltre, ho seguito eventi negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Turchia e in Egitto.

Fonte e versione originale in inglese: This Week in Palestine

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org

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