Me lo ha raccontato Mario, l’amico di Terni con cui faccio scalate.
Reparto oncologico, tra i malati terminali si sente gridare una giovane donna. Attraverso la cannula dell’intubazione orale, in maniera indistinta la donna continua a ripetere: ”Ho vinto il concorso! Ho vinto il concorso!”
Mario lo ha sentito da vicino, ma anche riferito di rimbalzo il grido è dirompente.
Non è tripudio per un prossimo incarico, impossibile da ricoprire.
È ultima vittoria della sua vita sconfitta.
Il concorso: chissà quale, chissà quanto desiderato e meritato.
Il concorso, traguardo che inaugura una nuova condizione per chi lo consegue.
Per lei no. È la formula del suo addio, l’ottenuto riconoscimento del suo valore.
È medaglia appuntata sul petto appena in tempo. In tempo, sì, proprio quando non ce n’è più, quando è scaduto e sgocciola a minuti dalle flebo.
Ce l’ha fatta, ha vinto il suo concorso. Lo grida da intubata, accorre il personale medico e nel reparto piovono le impensabili congratulazioni.
Conosco poesie e preghiere sulla vita.
Ognuno fa i conti con la propria, in qualche momento fatale.
Questa donna davanti a un invisibile plotone di esecuzione dichiara col suo grido l’appartenenza al mondo.
Il suo concorso vinto, esclamato a gola strozzata, scrive un verso che non posso dimenticare.
Non è sconfitta, morendo con un grido di vittoria.