“Vorrei aprire un porta”. Pronuncia la frase un detenuto, da vari decenni nel braccio della morte a San Quentin, California. Da vari decenni non tocca la maniglia di una porta.
Lo Stato ha rinunciato alla pena capitale, ma al tempo della condanna a morte di Jarvis Masters funzionava la camera a gas.
Leggo la sua vicenda scritta dal giornalista David Sheff: ”Un buddista nel braccio della morte” (Ubiliber). Masters iniziò pratiche di controllo del respiro e di meditazione grazie a un incontro fortuito.
Condannato in gioventù per varie rapine a venti anni, in carcere è stato incriminato per concorso in omicidio di una guardia. All’epoca apparteneva a una banda di afroamericani politicizzati. I testimoni di accusa ritrattarono in seguito, ma questa e altre forzature processuali non hanno ottenuto la riapertura del processo.
La pratica buddista gli ha permesso di fare i conti con la propria vita, sui torti subìti fin dall’infanzia, sui torti commessi.
Ha letto molto, ha scritto un paio di libri su storie di carcere, raggiungendo successi editoriali.
A Natale si festeggia la nascita di un bambino provvisto di resurrezione. In altre maniere essa qualche volta si applica a vite di persone scartate dalla società.
La giudice che lo condannò a morte aggiunse per commento che sua madre avrebbe dovuto conoscere metodi anticoncezionali. Cioè: meglio che lui non fosse nato.
La vita di Jarvis Masters, ancora rinchiusa da quattro decenni, dimostra il contrario. Chi riesce così profondamente a migliorare se stesso, è spesso migliore degli illesi.
È un bene per la società intera e per me lettore che la sua vita ci sia e si sia provvista, nel braccio della morte sospesa, di resurrezione.