La “debacle” politica dello schieramento berlusconiano-leghista, nelle consultazioni amministrative del giugno 2013 che hanno coinvolto quasi 7 milioni di elettori in 564 comuni italiani, ha registrato un’autentica Caporetto anche a Treviso, da circa 20 anni amministrata e diventata indiscusso feudo leghista del sindaco Giancarlo Gentilini, assurto nell’immaginario nazionale a macchietta umoristica di sindaco sceriffo.
Una città-simbolo del leghismo, duro e puro però anche ottuso e colluso, che ha segnato la recente storia, non solo politica, della Marca Trevigiana e dell’intero Nordest italiano. Vorrei porre alcune mie considerazioni a proposito di una stagione che si spera chiusa per sempre e che merita un’analisi di tipo culturale. L’ex sindaco di Treviso, Gentilini, figura dal linguaggio eccentrico e spesso becero, diventa un caso nazionale nell’ottobre 1997 quando toglie le panchine della stazione ferroviaria per allontanare “negri e perdigiorno” o quando nel 2004 in un’intervista alla stampa spara contro gli omosessuali dicendo: “Darò disposizione ai vigili affinché facciano pulizia etnica dei culattoni!” oppure nel 2005 quando attacca gli immigrati presenti in città affermando perentorio: “Bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pum pam con il fucile!”. E quando, molto timidamente qualche parroco trevigiano, in nome del vangelo, parla di tolleranza, di accoglienza e di fraternità, il nostro sceriffo punta simbolicamente il fucile contro “i preti rossi che sono da mandar via a furor di popolo!”. A Treviso, durante il ventennio leghista, il linguaggio gentiliniano registra un crescendo misto di folklore truce e di arroganza impunita che incrementa l’immagine popolana e vincente dello sceriffo, il quale si presenta come paladino della città per difenderla da “comunisti, negri e omosessuali”. Un sindaco che, per quanto riguarda dichiarazioni ad effetto, fa scuola e moltiplica attorno a sé numerosi proseliti, capaci perfino di superare il maestro in chi la spara più grossa. Come ad esempio avviene con il consigliere comunale leghista Bettio il quale, in un’intervista alla stampa del 2004, ha l’impudenza di affermare: “Sarebbe giusto far capire agli immigrati come ci si comporta usando gli stessi metodi nazisti. Per ogni trevigiano a cui recano danno o disturbo, vengono puniti 10 extracomunitari!”(da la Repubblica del 4 dicembre 2004). E da ultimo, nell’amarezza della sconfitta all’indomani dei negativi risultati elettorali del giugno 2013, il sindaco, richiamandosi addirittura a Gesù Cristo e al vangelo, si lascia prendere dalla foga anticomunista di sempre: “Mi sento come un secondo Gesù Cristo che ha parlato nel deserto. Il mio Vangelo non l’hanno capito; la sinistra è come l’Islam che pensa di risolvere i problemi uccidendo e massacrando gli infedeli”.
E l’ultima ciliegina sulla torta dell’ennesima vergogna padana la possiamo leggere in una pagina di Facebook del 13 giugno 2013, dove la militante leghista di Padova, certa Dolores Calandro, scrive la seguente infamia riferita alla neoministra italiana di colore Cécile Kyenge: “Ma non c’è mai nessuno che se la stupri?” La spregevole affermazione fa il giro del mondo, infangando ancora una volta l’immagine di un Veneto inguaribilmente razzista. Perché nel ricco Nordest, erede di una grande tradizione cattolica e di un’efficienza imprenditoriale senza rivali nel mondo, continua ad imperversare una deprimente povertà culturale e una colpevole dissipazione del patrimonio etico che i nostri padri ci hanno lasciato?
Con simili linguaggi e con i molteplici gesti provocatori che conosciamo, in questa lunga stagione leghista si è assistito ad un progressivo e triste dissolvimento di un humus culturale ed etico che a Treviso in particolare e nel Veneto in generale aveva plasmato il tessuto di una convivenza civile e solidale a partire dal dopoguerra fino ai primissimi anni ’90. Lentamente è andato mutando il DNA antropologico della società veneta che, nel giro di appena 20 anni, non solo ha fatto una chiara opzione politica per la Lega, arrivando a percentuali bulgare che sfiorano o superano il 50% dei consensi ma anche sembra aver cambiato i suoi valori etico-culturali di riferimento. Cosa e perché è accaduto di talmente nefasto nella Marca Trevigiana, conosciuta fin dal medioevo come “la marca gioiosa e amorosa”, da diventare nel giro di due decenni “la marca rabbiosa e rancorosa”? Cosa e perché è accaduto che la sola parola clandestino, com’era successo per la parola ebreo 60 anni prima, venisse considerata reato e colpisse gli immigrati come una condanna già emessa e pronta ad essere eseguita?
Cosa e perché è accaduto che, ad esempio, nel territorio trevigiano, da sempre considerato la “sacrestia” d’Italia per la sua capillare cultura cattolica e la sua diffusa pratica religiosa, entrasse nell’immaginario collettivo italiano come la patria della xenofobia nazionale?
Sono interrogativi quanto mai angoscianti per tutti. Dopo l’attraversamento del lungo tunnel che si spera di lasciare alle spalle, con quest’ultimo passaggio viene oggi posta l’attenzione non solo sull’appartenenza politica ma anche sulla coscienza ecclesiale ed etica di un popolo, quello veneto in generale e trevigiano in particolare, che sociologicamente si professa cattolico. Ma si tratta, appunto, di un cattolicesimo pagano radicato in una società disseminata di simboli religiosi ma senza Cristo e senza vangelo. Tale consapevolezza, anche a livello di presbiterio diocesano e di comunità parrocchiali nel loro complesso, probabilmente è rimasta latitante proprio nel momento in cui il virus letale entrava subdolamente in circolo nel corpo sociale a corrompere e a dissolvere il tessuto connettivo di una realtà popolare che ha secoli di storia solidale. Nel corso degli anni, senza percepire la gravità del fenomeno degenerativo, è avvenuta all’interno di questa realtà una lenta ma micidiale metabolizzazione per cui, ad esempio, si mescolava banalmente come niente fosse la blasfema espressione del cosiddetto dio Po, generata dalla dissacrante e idiota ritualità celtico-leghista, con la fede nel Dio di Gesù Cristo, la sola che qualifica l’identità del cristiano.
Di fronte al degrado etico che negli ultimi due decenni è andato fortemente crescendo in Italia, non c’è stata traccia di netta dissociazione pubblica da parte dell’autorità ecclesiastica. Qua e là si sono registrate alcune sparute voci, peraltro subito tacitate o ignorate, che, indignate di fronte allo scempio dei diritti umani, rivendicavano il recupero di un vangelo calpestato. Tuttavia, nel silenzio complice di un’opinione pubblica e di una Chiesa italiana totalmente distratte, la Lega e la subcultura da essa derivante sono fortemente cresciute, non solo da un punto di vista elettorale. E l’Italia democratica, tollerante e nata dalla Resistenza, ha continuato a deperire, umiliata e offesa.