È bella, bellissima, con gli occhi neri che ridono e i folti capelli corvini sempre un po’ scompigliati. Potrebbe essere una ragazza italiana del Sud, morbida ed elegante, con quel modo di muoversi nobile che la meravigliosa Sophia Loren portò sul grande schermo tante volte.
In Italia, Maesoomeh ci arrivò nel 2003 con un gruppo di universitari interessati alle città d’arte e, dopo quei quindici giorni, non riuscì più a togliersi dagli occhi e dal cuore Roma, Venezia, Firenze, Pisa e pure Milano. Un colpo di fulmine la legò all’istante ai luoghi che avevano donato al mondo i gioielli architettonici e artistici più preziosi della storia dell’umanità. Così, una volta laureata, Maesoomeh Arabi decise di lasciare l’Iran per un master nel nostro paese. Soltanto che, una volta qui, capì che il percorso di studi italiano era un po’ differente da quello iraniano, essendo quest’ultimo più imperniato sulla cultura orientale e -come riferimento all’Occidente- sulla cultura Statunitense. Pensò di ricominciare da capo, di riprendere l’università in Italia. Cinque anni di studi al Politecnico di Milano (e mai un esame fuori corso), la tappa intermedia della laurea triennale, il lavoro presso uno studio di architetti di Gallarate e, infine, nel 2013, la laurea con tesi sul restauro del Collegio Borromeo di Pavia.
Ora, mentre sta preparando l’esame di stato per l’iscrizione all’albo, segue il corso di italiano del Ctp perché, come succede per coloro che hanno buona padronanza di una seconda lingua, si rende conto di aver ancora bisogno di studiarla. È persona riservata, Maesoomeh, tuttavia sempre disponibile, perciò non è stato difficile farsi raccontare un po’ di lei.
È musulmana, ma sciita, non sunnita.
Gli sciiti, di chi si tratta? È una corrente minoritaria dell’Islam, sono al potere in Iran e furono perseguitati in Iraq ai tempi di Saddam Hussein. Si tratta di una percentuale del dieci per cento dei musulmani del mondo e di essi circa 120 milioni vivono in Medio Oriente.
Gli sciti nascono quando Maometto muore nel 632, e Alì, suo cugino, ne sposa la figlia Fatima. Allora parte la contesa per la successione, perché i sunniti, (da sunna, cioè tradizione) vorrebbero scegliere il rappresentante o vicario (in arabo khalifa, da cui califfo) del profeta, ma alcuni musulmani (shi’ ah, da cui sciiti, che significa partito) affermano che il leader dell’Islam debba essere Alì, unico facente parte della famiglia del Profeta. Alì (proclamato Imam, che significa “colui che guida la preghiera”) resta al potere per cinque anni, poi viene ucciso in un’imboscata. Anche i suoi figli muoiono in battaglia. Nei secoli successivi il potere resterà nelle mani delle dinastie sunnite degli Omayyadi, poi degli Abassidi e infine degli Ottomani e il califfato diverrà una monarchia ereditaria. Gli sciiti passeranno all’opposizione.
Maesoomeh Arabi è scita, non porta il velo perché i genitori, cresciuti nell’Iran laico precedente all’avvento degli āyatollāh, l’hanno educata così e le hanno spiegato che il velo è un atteggiamento interiore di rispetto e pudore nei confronti del prossimo e che riguarda, in ugual modo, uomini e donne. All’interno del corso di italiano, Maesoomeh viene guardata con sospetto dalle donne marocchine velate e una di queste -cinquantenne analfabeta- addirittura la riprende energicamente perché non porta il velo: deve metterlo, perché altrimenti commette peccato, dato che una donna non velata eccita gli uomini.
Poi, il fatto che sia scita, e non sunnita come i marocchini, già la colloca in una situazione da miscredente. “Le sorelle che vivono nelle società occidentali devono farsi carico in speciale modo della modestia, della vergogna, del pudore, dell’onore e persino della timidezza per custodire la castità. Sono gli ordini di Allah che pretende che le donne si tengano nascoste “da tutti gli uomini illeciti per loro (cioè che non sia per loro ‘mahram’) e di occultare in loro presenza i loro ornamenti (la loro bellezza). (…)
Queste credenti possiedono hayà, perché si vergognano di uscire mostrandosi in pubblico e commettendo questo grave peccato di lasciare che tutti possano ammirare la loro bellezza. In queste società ci sono tante donne (musulmane) che dichiarano di provare haya’, ma il fatto che esse non vestono l’hijab dimostra il contrario.
La dichiarazione secondo cui la donna della società di oggi non debba coprirsi è ovviamente una miscredenza. (…)
L’hayà della donna deriva dalla sua modestia, dalla sua timidezza e dal suo timore di Allah, dunque come potrebbe possedere hayà , e al contempo camminare in pubblico senza velo?”1.
Maesoomeh Arabi è scita e capisco immediatamente che la sua visione dell’islam è molto differente da quella dei sunniti. Infatti, mentre i sunniti interpretano alla lettera le scritture e la loro applicazione giuridica, evitando di attualizzarne e incarnarne il messaggio nel presente, gli sciiti hanno scelto per un’interpretazione simbolica del Corano alla ricerca della verità della fede. Per questo gli sciiti sono accusati dai sunniti di aver introdotto la filosofia all’interno del messaggio divino che, secondo loro, non avrebbe alcun bisogno di essere razionalizzato.
Quasi tutti i sunniti valutano gli sciiti dei falsi musulmani, una setta di empi da combattere con tutte le forze. Il giornalista Ryszard Kapuscinski spiega il ruolo della religione sciita nella rivoluzione iraniana del 1979: “Il talento dello sciita si manifesta nella lotta, non nel lavoro. Contestatori nati, sempre all’opposizione, dotati di grande dignità e forte senso dell’onore, appena scoccò l’ora di dare battaglia si sentirono di nuovo nel loro elemento.”
Maesoomeh Arabi è nata proprio durante quella rivoluzione.
“Sono nata a Karaj, vicino a Tehran, 35 anni fa, nell’anno della rivoluzione.”
È il nonno che decide di imporle il nome Maesoomeh, in omaggio alla sorella dell’ottavo imam sciita Reza, ma il padre gliene sceglie un altro legato alla sollevazione popolare.
“Esteghlal, azadi, jomuri-e islami”, cioè “indipendenza, libertà, repubblica islamica”: è lo slogan dei rivoltosi che cacciarono lo Scià.
Il padre di Maesoomeh, dunque, decide di chiamarla anche Azadeh: libertà.
E alla libertà, Azadeh non vuole rinunciare; per questo rimane in Italia; per questo, forse, resterà in Europa. “Per me l’Italia non è molto diversa dall’Iran, -racconta- ha un magnifico paesaggio, come quello del mio paese, e perfino come popoli siamo simili. Gli iraniani non sono arabi, sono ariani; addirittura l’atteggiamento degli iraniani e degli italiani è somigliante, però… in Italia c’è la libertà!”
Lo dice quasi con rammarico, quasi con un po’ di amarezza, forse per il fatto che noi non ci rendiamo conto di quanto, essendo liberi, siamo ricchi. “Il mio secondo nome è proprio ‘libertà’, -spiega Azadeh- perché mio padre aveva creduto nella rivoluzione; aveva pensato che avrebbe portato un miglioramento nel paese, dove la crescita economica era squilibrata e parte della popolazione era povera e analfabeta. Quando nel 1979 lo Scià abbandonò il paese, nessuno immaginava che da lì a poco sarebbero stati i mullah a governare.”
Il processo di islamizzazione della rivoluzione fu veloce, ma non istantaneo. Il referendum che il 30 marzo 1979 stabilì che l’Iran era una repubblica islamica fu approvato col 98,2 per cento dei sì. “Aveva ragione mia madre, -dice Azadeh- che non si era mai fidata dei religiosi; diceva che quando una religione vuole prendere il potere non bisogna mai credere che darà più libertà.”
“Il 7 marzo 1979, meno di un mese dopo la caduta della monarchia, Khomeini ordinò l’imposizione del codice di abbigliamento obbligatorio per le donne negli uffici e nei luoghi pubblici. Le donne iraniane sfidarono Khomeini e tennero una grande dimostrazione a Tehran l’8 marzo, il giorno internazionale della donna. I Mojahedin denunciarono la situazione in una dichiarazione dell’11 marzo. “Ogni uso della forza per imporre qualunque tipo di velo o un codice di abbigliamento alle donne del paese… è irrazionale ed inaccettabile. La nostra rivoluzione non può accettare la negazione dei pieni diritti giuridici, legali e sociali per le donne iraniane”. Questo fu l’inizio della difficile lotta politica non violenta che si concluse 2 anni e mezzo dopo, nel giugno 1981.
Durante questo periodo, decine di donne furono uccise, seriamente ferite o arrestate dalle guardie rivoluzionarie e da gruppi paramilitari. Il 27 aprile 1981, donne che sostenevano i Mojahedin inscenarono una grande manifestazione di 150.000 persone per protestare contro il rafforzarsi della dittatura e la brutalità del regime. La fase politica della lotta finì il 20giugno 1981, quando una grande dimostrazione di 500.000 abitanti di Tehran si trasformò in un bagno di sangue. L’eliminazione di ogni forma di attività politica, spinse molte donne ad unirsi alla resistenza che ebbe inizio a seguito del massacro del 20 giugno. I Mojahedin del Popolo, un movimento musulmano shi’ita, guida la resistenza al regime clericale. La portata del coinvolgimento delle donne nella resistenza può essere calcolata considerando il fatto che esse costituiscono quasi il 20% delle 100.000 persone uccise dopo il 20 giugno 1981 per ragioni politiche, oltre a decine di migliaia di donne che furono arrestate e torturate nello stesso periodo. (…)Hashemi Rafsanjani, il presidente dei regime, da Ettela’at del 7 giugno del 1986: “L’eguaglianza non è primaria rispetto alla giustizia… Giustizia non vuol dire che tutte le leggi debbano essere le stesse per gli uomini e per le donne. Le differenze come la statura, la vitalità, la voce, lo sviluppo, la qualità muscolare e la forza fisica, mostrano che gli uomini sono più forti e più capaci in tutti i campi. Il cervello degli uomini è più grande…
Queste differenze hanno effetto sull’assegnazione delle responsabilità, dei diritti e dei doveri”. Una tale visione delle donne spiega perché, una volta al potere nel febbraio del 1979, i mullah misogini imposero un assortimento di restrizioni sociali alle donne nell’impiego, nell’educazione, nelle arti e nello sport. Meno di un mese dopo, Khomeini ordinò alle donne l’osservanza di un codice per l’abbigliamento negli uffici e nei luoghi pubblici. In breve, da quel momento in poi, tutte le donne giudice e pubblico ministero furono licenziate. In giugno, alle donne sposate fu proibito di frequentare le scuole. Misure per strappare alle donne tutti i loro diritti sociali divennero leggi e furono rinforzate sistematicamente. Lo stato di deterioramento economico ha afflitto l’intera società. Comunque, a causa della discriminazione basata sul sesso, le donne iraniane hanno portato la parte maggiore di questo peso. È ormai comune che vi siano madri che uccidono i loro bambini nella maniera più perversa o li abbandonino a causa della grande povertà. Secondo lo stile corrente, il quotidiano Jornhouri Islami, del 20 agosto 1993 ha scritto: “Una madre ha ucciso i suoi tre figli di otto, sei e quattro anni”2
Maesoomeh Azadeh proviene da una famiglia del ceto medio alto di Karaj. Possidenti terrieri sia il padre sia la madre, insegnante di matematica lei, impresario immobiliare lui, non hanno mai conosciuto difficoltà economiche e non è certo per cercare lavoro che lei e sua sorella Shadi, venticinquenne studentessa del Dams a Bologna, sono venute in Italia.
Il problema è la doppiezza, l’ipocrisia che richiede l’adesione al tipo di vita imposto dal regime teocratico. “Per me è sempre stato un problema vivere là mostrando due facce, una in casa, dove parliamo e viviamo laicamente, e una fuori, sempre controllati dalla polizia religiosa. Mia madre, per non sottomettersi ai religiosi, ha lasciato l’insegnamento… A nove anni, a scuola, mi dicevano che non potevo stare vicino ai miei cugini maschi, perché li inducevo in tentazione.
Quando, tutta avvilita, ne ho parlato con mia madre, lei mi ha risposto di lasciar perdere, di non ascoltare queste cose. I dirigenti scolastici, dalla rivoluzione in poi, sono collocati lì dagli āyatollāh, spesso sono loro parenti e devono ubbidire ai loro dettami. Hanno eliminato parte della storia e in molte materie ci sono meno contenuti rispetto a prima.” Azadeh ha altre due sorelle: Pooneh, trentunenne che lavora come avvocato, e Shima, ingegnere, dirigente di una fabbrica per strumentistica ospedaliera.
Certo, in Iran le donne possono guidare, possono muoversi da sole, ma sempre velate. “In Iran vivevo nella paura della polizia religiosa. Se sei bella, pulita, ordinata, se metti scarpe alla moda, se hai anche solo un capello fuori dal velo, arrivano loro e ti malmenano, ti dicono cose orribili. All’ingresso dell’università ci sono le donne della polizia che ti ispezionano e, se non sei vestita come si deve, non ti lasciano entrare. Se poi esci con un uomo, deve essere un tuo parente, perché la polizia viene e ti controlla; se quell’uomo non è della famiglia, vengono chiamati i tuoi genitori, ai quali conviene dire che non sapevano niente, altrimenti verrebbero puniti per non aver vigilato su di te. In genere, fanno pagare multe molto salate, è in sostanza un mercato! Durante la rivolta del 2008/2009, ci furono dei desaparecidos, persone di cui non si sa più nulla. Tra di loro, un mio amico che aveva osato filmare le manifestazioni. E centinaia di persone vittime di torture, molti morti a causa delle torture.”
Nel luglio del 2009, sul sito Rooz, vicino all’opposizione, apparve il comunicato delle madri di un gruppo di manifestanti uccisi dalle forze dell’ordine o dalle milizie religiose nei giorni precedenti: “Invitiamo tutta la cittadinanza a radunarsi, ogni sabato pomeriggio alle 19, nei giardini pubblici di Teheran, in particolar modo presso il giardino di Laleh, per commemorare i nostri figli, ingiustamente uccisi dalle forze di polizia durante le manifestazioni dei giorni scorsi’’. Sul modello delle madri argentine dei desaparecidos. Il gruppo di donne, che si definirono Madri in lutto, scrissero sul sito: ‘’Non dimenticheremo mai quello che il governo ha fatto ai nostri ragazzi e pertanto continueremo a seguire la loro via, ricordandone la memoria in tutte le possibili occasioni che ci verranno offerte. Chiediamo a tutti gli iraniani, soprattutto alle donne, di solidarizzare con loro e di considerarci madri disperate che chiedono giustizia’’.
La prima manifestazione, in realtà, aveva avuto luogo il sabato prima, quando circa 500 persone, soprattutto donne, si erano riunite nel giardino di Laleh per chiedere giustizia, ma la polizia era intervenuta disperdendo la folla e arrestando alcune delle madri dei ragazzi uccisi.3
Appena arrivata in Italia, Azadeh dice di aver avuto grosse difficoltà con la lingua. Per fortuna, ha incontrato persone sempre disponibili ad aiutarla, dalla questura al personale dell’università. Anche sul lavoro si è trovata bene, a parte la gelosia di qualche collega scocciato da una giovane straniera tanto capace. “Uscire dall’Iran è difficile, -confida Azadeh- io sono dovuta andare all’ambasciata italiana, studiare e sostenere un esame di italiano e poi sono potuta partire.
Ma non è cosa per tutti: servono tanti soldi. E poi Milano: bella, ma un po’ fredda. Pure la gente è fredda, distante. Più dell’80 per cento di coloro che vedevo in università non avevano inoltre nemmeno idea di cosa e dove fosse l’Iran. Quasi nessuno sapeva collegarlo alla Persia. Oppure mi chiedevano se in Iran ci sono le automobili, ma là molti vanno in Ferrari! Castelnovo mi piace perché è piccolo, tranquillo, circondato dalla campagna. Ho molto da studiare e non ho tempo per stringere legami, ma trovo i montanari emiliani più accoglienti e simpatici dei milanesi.”
Quella del 1979 non era nata come una rivoluzione islamica: era una sommossa di forze laiche e marxiste, alleate con i mullah contro il tiranno, contro il governo corrotto e impopolare dello scià Reza Pahlevi. Si pensava che avrebbe portato libertà.
“Per gli uomini, in realtà, forse la vita non è poi cambiata tanto, rispetto a prima, ma per le donne è stata la fine.”dice Maesoomeh Azadeh Arabi, e mentre osservo i suoi occhi sorridenti, all’improvviso capisco chi mi ricorda: mi passa davanti il volto di Neda, i capelli sciolti, stesa a terra, Neda, fiera e bella, uccisa nella rivolta del 2009.
Neda: “voce” o “chiamata” in persiano la ragazza diventata la “voce dell’Iran”. I nomi a volte fanno il destino delle persone.
Come per Azadeh, chiamata “libertà” quando nacque e ora in Italia in cerca di libertà.
Perché oggi, in Iran, “azadeh”, la libertà, almeno per le donne, è ancora un miraggio.
1 – In “Amat Allah (il blog-biblioteca di Umm Usama) nel 2010 appare un articolo intitolato: Al-Haya’ (la timidezza, il pudore), firmato da Zahra Abdul-Haseeb
2 – http://www.donneiran.org/donne-iraniane.html
3 – Da Christian Elia, http://it.peacereporter.net/articolo/16511/Sciopero+generale