C’è un detto africano bello, dice che chi osa puntare il dito contro qualcuno ha almeno tre dita puntate contro di sé, e il pollice un po’ all’insù, che sembra direzionato come l’indice ad accusare, in realtà gli tiene ben ferme quelle tre dita rivolte verso di sé, e maliziosamente punta l’alto. E sono tre dita importanti: il medio, che è il dito più lungo, più esposto, offensivo o gratificante secondo volontà; l’anulare, che è il dito dell’amore fedele, impreziosito d’oro, un dito istituzionale; infine, il mignolo, che è un dito proletario, sfruttato dall’economia delle altre dita, senza potere specifico, e che in amore è anonimo, si accontenta di accompagnare le carezze senza sentire con pienezza, è un dito emarginato, perfino nella lotta, quando la mano impugna pietre, il mignolo sembra escluso, o escludersi, in realtà però fa equilibrio, misura il peso della distanza dal bersaglio, per dare direzione, come le penne timoniere di un uccello.
Di mani piene di pietre da lanciare tutti ce ne intendiamo un po’, anche di bersagli colpiti o mancati. Anche il Vangelo è pieno di mani e di pietre: pietre scartate, pietre vive, e pietre da lanciare. Come le pietre degli anziani e dei farisei, strette in mani pronte a lapidare una donna che ha rubato amore, pietre ispirate dalle mani della legge e della tradizione unite, come sempre, in una coalizione perversa di morale, diritto e religione, preludio di una volontà di esecuzione. Sono pietre cariche di accuse ipocrite e nervose che circoscrivono l’orizzonte della legge ad un unico peccato: quello del più debole, il mignolo dell’umanità, quello di una donna che ha cercato non un amore imposto, non un amore legale, ma l’avventura di un cuore concesso a una notte di passione, o di un cuore sedotto da un amore precario che rivendica una scelta libera, non quello dell’ipocrisia, o di chi rifiuta la verità dei sentimenti per giacere clandestino nei bassifondi di un diritto senza cuore. È una donna condannata da soli uomini, trascinata a forza nel tempio, all’alba, per uno sfregio all’orgoglio della legge di uomini ‘legali’. È lì, quella infelice femmina, in mezzo a quel tempio maschile chiuso alle donne anche solo per pregare, e aspetta l’ingiustizia, perché quello è il tempio degli osservanti, dei conservatori della religione, di quella razza di lapidatori che sanno solo coprire di pietre la vita e il peccato, che non conoscono il tempo di misurarsi con se stessi e con la verità di Dio, non conoscono giustizia, ma solo condanne.
Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei: Gesù non getta pietre, vuole che nessun peccato prevalga su un altro peccato, vuole dare spazio alle possibilità di bene che ciascuno può offrire alla vita, annulla l’archivio dei peccati e libera un’amante ferita verso una nuova innocenza, perché solo lui sa che vergini d’amore e di vita non si nasce, ma si diventa. E si china di fronte al peccato, offre la profondità di quella legge vera che non potrà mai esaurirsi in parole di condanna. E scrive per terra parole invisibili, tenerezze nascoste che il vento porterà via per chiamare un amore nuovo che si farà presenza nel respiro dell’umanità liberata; poi si alza, e sta di fronte alla donna, sguardo a sguardo, restituendole la sua dignità e una indicibile bellezza, aprendo strade nuove nel suo deserto e facendole germogliare una cosa nuova: una parola di liberazione che non la giudica; e nella tenerezza del movimento in avanti del suo sguardo le dice: va! e d’ora in poi cammina verso il tuo futuro e non peccare più, evita il peccato degli uomini dal cuore di pietra, riprenditi la vita, scegli il tuo cammino senza cedere te stessa ai piccoli furti d’amore, ma libera l’amore, portami con te nel futuro. Ecco, di Gesù non abbiamo nessuna parola scritta da lui, le uniche sono volate via, sciolte nel vento, oltre i peccati degli uomini della legge, e segnate ai piedi di una donna in attesa di una vita autentica, o di un amore condannato. Le sue parole non pesano come pietre, appartengono al vento, perché lo Spirito è il vento che non lascia dormire la polvere, diceva un frate poeta della fantasia di Dio. Poi dice parole che salvano: neanche io ti condanno, perché anch’io ho un peccato, e quindi non ti lancerò pietre. Il mio peccato è di credere in te, donna, per questo mi alzo davanti a te rendendoti importante come se ti attendessi da tempo anch’io, e per affidarti un amore diverso, che nessuno sembra voler capire, e che solo tu ora comprendi, tu che fai cadere anche a me le pietre che mi avevano preparato, tu che mi fai inventare strade nuove per liberarti da ogni peccato, e diventi la mia promessa di futuro e di umanità nuova, tu che sei un dolce peccato redento. Và, ti prego, e aiuta anche la mia chiesa a non peccare più, e proprio tu, che conosci da ora il grande amore che c’è nel peccato liberato, dì alla mia Chiesa che non sia una Chiesa delle pietre, ma Chiesa capace di chinarsi ai piedi di ogni peccato e di rialzarsi davanti a occhi dilatati di nuova luce che sanno vedere, finalmente, che ogni errore è solo una ricerca. E ricordale che nessuno ti ha condannata, nessuno mai ti condannerà, neanch’io, neanche Dio.
Sottrarsi all’obbligo di essere giudicati, secondo me, è grave quanto il divieto di giudicare. Non dimentichiamo che i sensi di colpa sono spesso i “guardiani” delle nostre intemperanze, perciò accettiamo le critiche perché ci aiutano a metterci in discussione e limitare i danni del nostro ego, ma, per contro, puntiamo pure il dito verso chi sbaglia: è una salutare forma di controllo sociale che ci obbliga a confrontarci con le nostre contraddizioni e i nostri limiti, senza preclusioni per nessuna categoria di persone.