“Lettera aperta ai giovani che diventano adulti, e poi vecchi”. È una specie di lettera aperta questa: faccio finta che coloro che la leggono siano tutti giovani che iniziano ad essere adulti e sono capitati o saliti improvvisamente su un gradino molto più alto della loro età o dentro una storia, anche quotidiana, difficile da comprendere. Non sono un filosofo, seppur mi sforzi di capire e di porre domande alla vita. Sono un frate e, come tale, mi spingo spesso a pensare al futuro oltre quella quota che almeno legittimamente dovrebbe competermi. D’altra parte ritengo che il futuro sia il punto d’arrivo della speranza, perché un cristiano, se tale, dovrebbe avere lo sguardo immerso anche negli orizzonti più lontani o almeno un bel po’ più in là del tempo in cui vive. Ho visto il mondo cambiare in fretta nel corso del mio abbondante mezzo secolo di vita. Anzi, troppo in fretta, e i tempi lenti di quando ero bambino o adolescente appartengono alla nostalgia, perché quasi improvvisamente, poi, il tempo si è messo a correre producendo innovazioni e tecnologie imposte dai soliti poteri forti, che hanno bruciato libertà e relazioni, e inventato nuovi esodi e ciniche perdite di vincoli di molti popoli con le loro terre d’origine. Non solo, si sono aggiunte le prepotenze nuove dei mezzi d’informazione e di formazione, che hanno sì aperto nuove e universali percezioni e impensabili possibilità, ma hanno anche dilatato la distanza e le differenze tra una generazione e l’altra, impoverendone il dialogo ma anche la trasmissione di quei saperi attraverso i quali, tra conflitti e totalitarismi, nel tempo sono stati issati i valori fondanti delle nostre ultime istituzioni. Di più: si sono introdotte modalità e pratiche differenziate per linguaggio, rapporto col tempo, senso di appartenenza, dimensione e consistenza dei nostri percorsi storici. Tutto questo, converrete, ha comportato, e comporterà ancora, rischi notevolmente imprevedibili, di cui è bene essere tutti consapevoli. Però, per voi giovani, tutto questo, anche se da un gradino più in là della vostra età, è vissuto, o lo state sperimentando, proprio nel momento unico della vostra vita in cui tutto dovrebbe far sorridere e stare ben saldi nel vostro presente, nel subito, o nel “quasi a portata di mano” o immediatamente consumabile, ma escluso da ogni prospettiva futura, anche perché la prospettiva di un futuro qualunque vi è stata sottratta sia come opportunità che come visione, lasciandovene solo le ipotesi più buie o impossibili. D’altronde la spensieratezza proprio alla vostra età, è stata ed è considerata una condizione stessa della felicità della vita. Ed è giusto secondo me che sia così, a meno che non sconfini in una frenesia sterile o in un’euforia fine a se stessa e priva di orientamento: che è come fare il girotondo troppo in fretta, e invece del mondo caschiamo noi. C’è, infatti, un problema di ingorgo degli spazi del vivere che prima o poi rischierà di farvi e di farci prigionieri inconsapevoli, e ci chiuderà tutti dentro recinti piccoli e asfissianti, con tempi brevi ma veloci. Occorre pertanto tenere presente, e questo vale per tutti, anche il concetto di limite, che ha ampliato solo virtualmente i propri confini, e al suo interno è necessario ricostruire una matura consapevolezza, mantenendo l’idea di essere unici, irrepetibili e preziosi, insomma di esserci, direbbe qualche filosofo, pur nella finitudine. Sta accadendo, e ce ne rendiamo tutti conto, che anche le tecnologie più sofisticate, checché se ne dica, non percorrono le orme dell’etica, e che non ci faranno diventare più autonomi con un click. Come fosse un semplice cambio di frequenza musicale, e che qualsiasi accidente tecnologico della virtualità, non darà mai automaticamente il sapere, tutt’al più qualche informazione rapida, anche perché il sapere, per eccellenza, ha bisogno di tempo e di esitazioni umane e di esperienze interiori per sedimentarsi. Un esempio banale: a forza di tenere l’automobile sotto il sedere ci siamo accorti o ci accorgeremo che dopo averci portato dove volevamo, in realtà abbiamo girato a vuoto per portarla da qualche parte e poter finalmente scendere, rivelandoci, se ne saremo consapevoli, che la libertà e mobilità che l’automobile ci concedeva, e tuttora ci concede, si è relativizzata, e che cominciamo a pagarla con la stessa materia che invece sembrava farci risparmiare: cioè il tempo. In altre parole, ci accorgeremo che la felicità non viene solo da un avere/possedere o da un essere sballati e fuori da ogni tempo e senso, ma si avvicina a noi, e sta con noi, attraverso un sentire, un costruire, un cercare e un trovare relazioni. La felicità non è neppure un elisir o un composto chimico o un lifting, ma è anch’essa un percorso, un frutto dell’esperienza, una gestione consapevole di spazi e tempi, di relazioni e passioni autentiche, anche se a volte imprevedibili. Ecco, per questo occorre non fare mondo a parte. E occorre non pensare di poter promuovere azioni senza conoscenze adeguate, né di pervenire alla conoscenza senza il tempo del pensare e dell’essere veri: e questa non è morale, ma sapienza del vivere. Per cui la felicità, per quello che ho potuto capirne, è sì un’ondata di leggerezza, ma viene dal massimo di consapevolezza raggiunta, e ha sapori e saperi diversi, intensi. Consapevolezza che viene, ad esempio, dal saper parlare con un vecchio e anche con un bambino, o dal sapere ascoltare cercando di capire “l’altro” fino ad averne un desiderio impaziente; oppure dall’aver goduto di momenti di solitudine ricchi di pensiero e di tenerezza verso se stessi ed ogni cosa che “vive” nel visibile e nell’invisibile, compreso Dio. Ma anche dall’aver coltivato la memoria dei passi nel nostro Paese: da quello piccolo in cui viviamo a quello grande da cui provengono le storie di tutti gli altri, compresi quelli che attraversano, fino a morirne, nei mari. O anche dall’aver saputo rallentare i passi per capire meglio e rispettare i più lenti, ma soprattutto, ed è qui che volevo giungere, dall’aver goduto il senso di gratitudine della nostra minuscola, ma unica storia, e anche di quella grande storia umana che, per un’identica unicità, raccoglierà anche la nostra. Ancora una cosa, per concludere. Avete certamente fatto caso che si parla di più nei cellulari che con quanti ci sono concretamente vicini, e che con le persone più care spesso non ci si riesce a capire, anzi, ci viene da ridere se il nonno non sa usare il bancomat o rimane inebetito di fronte ai certi nuovi linguaggi. E poi, ci siamo forse anche accorti che sempre più spesso si cede in tentazioni di supponenza o alimentiamo le opinioni per sentito dire perché costa troppo fatica cercare, sapere, ascoltare, trasmettere un pensiero vero, nostro solo nostro. Questo per dirvi che la leggerezza che porta sulle sue ali la felicità è suscettibile assai, fino a far tenere a distanza il prossimo e la verità. Ed è suscettibile assai almeno quanto lo è ciascuno di noi per fatti d’amore e d’amicizia. Vi lascio, allora, una descrizione tratta dalla Ciropedea di Senofonte.
Si racconta che nella capitale persiana, verso sera, nella piazza principale della città, aveva luogo la scuola che interessava tutti i cittadini. Sull’area circolare, come fosse un piccolo stadio, essi venivano divisi a spicchi, per età. Nel primo i bambini, di fianco a loro gli adolescenti. Poi gli uomini maturi. Infine i vecchi che chiudevano il cerchio combaciando proprio con i bambini. Le donne non c’erano, e sappiamo il perché, purtroppo. Durante quelle lezioni ognuno era d’esempio al settore più prossimo: tutti imparavano e, insieme, ricordavano. Ebbene, la materia di base che veniva trasmessa era la gratitudine. Principio etico di conoscenza e riconoscenza che non ci fa smettere mai di imparare.