Non sono poche le domande che ti assalgono in una estate vissuta con un tot di giovani in India; un paio sono queste: “che cosa stiamo trasmettendo alle generazioni future? E come custodire e coltivare in loro passione, fiducia e volontà di impegnarsi?”. Una prima osservazione, che non è però una risposta, mi è stata facile da cogliere: sono principalmente i ragazzi che trasmettono a noi qualcosa, soprattutto quella capacità di vivere e di toccare con mano i segni dei tempi, e poi quell’entusiasmo del presente, dell’esserci a tutti i costi che ha a che fare con la voglia di sapere e di vivere. Essi hanno una maggior immediatezza e sensibilità, e talvolta anche una profondità genuina rispetto alla lenta comprensione dell’oggi e del divenire della storia. Storia che almeno per me, nato negli anni ’50, ho dovuto affrontare con uno strabismo esistenziale che guardava contemporaneamente in tre direzioni: alla memoria del passato che cigolava sulla bilancia del presente, alla possibile rivoluzione del presente spezzata da un improvviso inverno e a un futuro da riempire di senso e di sensi. Man mano, però, ci si rende conto che il presente per i giovani di ogni generazione è sempre una lotta tra il coltello istituzionale di Abramo, che pone dei limiti, e la fionda profetica di Davide, che li vuole superare, soprattutto se, come succede da un po’ di tempo in qua, il presente è in mano ad un Pilato che smercia molti Barabba e che ha aumentato il prezzo del tradimento da trenta denari a ottanta euro. Un secondo punto: i giovani colgono subito quando i nostri princìpi rimangono distanti dal fluire della vita e da quelle reali esigenze che mutano frettolosamente lungo il cammino, se autentiche e vere. Proprio dalle tante provocazioni rivolte loro a distanza ravvicinata, ne ricavo che, al pari di noi che entriamo nella sera della vita, i giovani ci osservano molto e, nei giusti modi, sono molto disposti a raccogliere e ricevere ciò che offriamo, perché desiderano fortemente che noi siamo noi stessi, cioè veri. I giovani per quanto di stupido si dica di loro in realtà mettono alla prova non solo la nostra coerenza, ma anche la nostra fedeltà alla vita, e ai valori: fedeltà che per noi appunto dovrebbe significare resistenza buona, anche nella prova, per un amore, un ideale, una passione. Ed essi esigono, giustamente e indiscutibilmente, di essere presi sul serio, e trattati da interlocutori reali, possibilmente mai giudicati o esclusi, anche se questo non avviene né sul piano familiare, né su quello educativo, tanto meno istituzionale. E poi ci chiedono quella coerenza quotidiana, feriale, tra ciò che diciamo, facciamo, ma soprattutto siamo. Insomma, anche se siamo fragili desiderano da noi una concreta visione positiva del mondo e del futuro, quel mondo e quel futuro che poi sono loro stessi a chiamare o cercare. E pretendono, senza temere, il coraggio delle nostre idee che, se non imposte, accettano anche attraverso la polemica, la contrapposizione, o una benevola ironia e soggezione che “sentono” con un segreto rispetto. Capiscono quando stiamo dalla “loro parte”, cioè che gli vogliamo bene, e solo così riescono ad essere efficaci anche i nostri rimproveri o il nostro modo di disfare o analizzare le loro inesperte certezze. Colgono le nostre passioni e le esigono, perché vivono e si sentono dentro un’epoca “delle passioni tristi”, come diceva Spinoza, per questo insistono, o si perdono, in tante emozioni frammentarie pur sognando la passione definitiva e assoluta della vita. Quindi i contenuti che cerchiamo di trasmettere, più che nelle parole o nel nostro fragile argomentare, passano attraverso gesti semplici e affettuosi: sorrisi, sguardi, silenzi, perfino la camminata buffa, o il bere una birra insieme o una battuta intelligente, o il racconto di una vita o di un segreto da scoprire, oppure una ‘solfa’ da ascoltare o di parole sparse e perse per cazzeggiare. E se, al contrario, sembrano giovani senza resistenza e ricezione è perché la passione la devono sperimentare e non solo sentirne parlare. Anche per questo i giovani spesso indossano una artificiale indifferenza come scudo di difesa ed approccio, o hanno nell’anima l’ospite inquietante della noia, come la chiama Umberto Galimberti. E allora ci vuole molto amore e pazienza per far superare loro la soglia della fiducia nella vita. Ed è in questa situazione che ci rendiamo conto come sia veramente difficile trasmettere ai giovani l’esperienza, il sapere dell’anima, in un vivere che non contempla quasi più il tempo dell’incontro e l’ascolto del sentire, in un tempo breve che esalta la fine della memoria e la morte dell’attenzione fino a rinnegare il tempo intero. Anche perché la loro richiesta, comunque prioritaria, è chiara, ed è proprio quella dell’ascolto, dell’attenzione perché, bene o male, co- 50 oggi i giovani devono sperimentare la passione
nosciamo il loro grande desiderio, anzi la pretesa non negoziabile: quella di essere presi in considerazione. Forse, con una sintesi un po’ sbrigativa, non c’è che una soluzione eternamente laica, e profondamente evangelica: quella di consentire loro la possibilità e la libertà di relazioni il più autentiche possibili, di passioni che accendano il cuore per sempre, e di sogni che riaprano gli occhi alla realtà. Chi parla di sfida educativa, quindi, prima deve far comprendere che chi educa ama, ed è il primo, cioè, che deve consegnare una libertà creatrice. Anche se una grande filosofa, Maria Zambrano, suggerisce invece un’audace terapia filosofica per adulti e giovani, proprio per l’epoca delle passioni tristi e delle violenze della volontà, propone cioè una filosofia del disfare, una pratica di disapprendimento, attraverso un sapiente ascolto passivo che fa il filo alla mistica (il sapore di Dio) e alla poesia (il sapere del cuore), perché le parole della mistica e della poesia lasciano aperti “alla fluidità del passaggio tra il sé e il fuori di sé, e consentono il ritrovamento di un’energia al fondo di sé”. D’altra parte tutti ci chiediamo come può trasmettere valori e passioni una generazione corrotta e corruttibile come la nostra, una generazione cioè che per la prima volta lascerà ai propri figli un mondo peggiore, e che sta divorando tutto: umanità, territorio, risorse, futuro, persino Dio, e che è soprattutto senza energia al fondo di sé. Mi viene di pensare che è molto più facile il consapevole disimpegno dell’ignorare, anziché dell’amare educando, perché vedo che anche le nostre risorse migliori, soprattutto quelle meno giovani, non vogliono impegnarsi in questa società che purtroppo non è più un “organismo” che vive, come hanno tentato di insegnarci e consegnarci i filosofi e i padri delle carte costituzionali, ma qualcosa di biologicamente morto, ed è divenuto così “un meccanismo” vorace che fa confluire tutti nella discarica abusiva del terrorismo del denaro, e nelle rappresaglie ad personam del potere, di ogni potere. E tutti ci sentiamo sempre più soli dentro a questo contesto sociale, politico e religioso che si frantuma, che ci frantuma, o che forse dobbiamo frantumare per non essere complici dei ladri di futuro e di vita dei nostri giovani che, stiamone certi, ci cambieranno le domande proprio quando avremo l’illusione di avere per loro le risposte giuste.