Una fiaba per Marcelo Barros, per i suoi settant’anni. Grande parte della mia vita è stata segnata dall’incontro e dall’amicizia con padre Marcelo Barros. I nostri vent’anni di differenza me lo hanno sempre fatto sentire come un fratello maggiore o un giovane padre. Di Marcelo mi ha colpito subito lo sguardo pieno di stupore, la sua compassione, il suo cuore in festa. Noi spesso mettiamo i pensatori al lato della strada, in una postazione riparata, come un telecronista, che racconta la partita, ma non corre nel campo. Marcelo, invece, è sempre stato un pensatore dentro il mondo, non a lato, non in una postazione riservata. La sua teologia nasce dall’incontro, dalla relazione con gli altri. E’ quella di Marcelo una teologia sinfonica, per fiati e percussioni, per archi e strumenti a corda. Un grande commento al salterio della vita, dove chiaro e scuro convivono insieme. La sua teologia è arrischiata, tanto che il destino del suo pensiero è il destino del suo stesso corpo. Si ammalò di cuore proprio a partire dal dolore del mondo, dal suo volerlo contenere nel suo battito. Ha amato la Chiesa, ma ha amato più il mondo della chiesa, ha amato l’universo dal filo d’erba fino alle stelle. Ha sofferto per la chiesa, che ha sempre desiderato vedere innamorata del vangelo. Ha sofferto a causa delle chiesa, che non gli ha risparmiato le lacrime. Ma lui ne è uscito sempre più libero. Come in un inedito parto. A partire da questa ultima immagine del parto, vorrei dedicargli questa piccola fiaba. A lui e ai suoi genitori Margarita e Emmanuel. Una fiaba, per il Marcelo che ha il coraggio di nascere ogni giorno. Con grazia e coraggio. Se noi siamo anche le persone che abbiamo incontrato, credo di dovere molto della mia vita a Marcelo Barros. I suoi genitori non li ho mai conosciuti ma i suoi racconti me li hanno resi vivi, come quando lo visitano ancora in sogno, lasciandoli in bocca il gusto di una dolce malinconia. Lui i miei genitori invece li ha conosciuti bene e li ha sempre ospitati sotto il mantello della sua tenerezza. Del papà accolse la consegna della parole ultime. Del suo testamento d’amore. Dedico questa fiaba a Marcelo Barros. O meglio al bambino che Marcelo è stato e la cui luce innocente gli brilla ancora negli occhi… Un bambino voleva diventare medico degli animali. Non degli animali domestici, ma di quelli selvatici. Avrebbe voluto essere con Noè, prima del diluvio, a preparare l’Arca. Perché nessuno andasse perduto. Quel bambino aveva nel suo corpo due fiumi, uno nero e uno bianco. Il fiume di Emanuel suo padre e quello di Margarita sua madre. Il suo corpo era il luogo dell’incontro, il luogo della festa. Perché quell’immaginario medico degli animali selvatici scelse infine gli uomini? Semplicemente perché li vide come i più deboli, quelli che facevano più fatica a stare in piedi, più dei leoni e degli elefanti. Li scelse anche perché erano così fragili da pensare talvolta di essere come Dio. Questo bambino era nato con l’alba, alla fine di una lunga veglia. Era uscito dal fuoco della pasqua, dall’acqua della libertà. E perché tra gli uomini aveva scelto i monaci? Perché tra i fragili, si era accorto erano i più fragili. Non solo infatti potevano pensare di essere come Dio, ma che dio nel miglior caso fosse come loro. Così il bambino, divenuto monaco, cercò di costruire un monastero vicino alla foresta, perché i monaci imparassero dagli animali selvatici a non diventare schiavi di nessuno: né del loro abito, né del loro potere, né del loro sapere. L’uomo che amava gli animali e divenne monaco, conservava ancora gli occhi del bambino. E piangeva ogni volta che moriva una farfalla, ogni volta che veniva reciso un fiore. Non c’era posto per un monaco così in nessun monastero. Poiché le mura dei monasteri salivano fino al cielo, non poteva entrare nessun animale selvatico e nemmeno quello di selvatico che c’è negli umani: l’amore, il dolore, il riso, il pianto… Il bambino diventato monaco pensava all’arca di Noè e come fosse bella quella ecumene salvata dal diluvio. Pensò di fare della foresta il suo monastero, ma anche la foresta era ormai piena di cartelli con molti divieti, più di quanti fossero gli uccelli sugli alberi. Non gli restava che il mondo. Decise però che non avrebbe fatto del mondo il suo monastero ma del suo monastero il mondo. Non avrebbe più benedetto l’acqua perché l’acqua era già benedizione nell’onda dell’oce- ano e nella pioggia leggera. Nelle lacrima di una donna o nella rugiada del mattino. Non avrebbe più consacrato il fuoco, perché il fuoco era già sacro, nel rosso del sole che sorge e nel falò che brucia mentre si racconta e si danza. Il bambino che voleva fare il medico degli animali e si fece monaco, partì per un lungo viaggio dentro sé stesso. Passò come nelle fiabe le sette porte d’argento e lasciò davanti a ciascuna qualcosa che aveva trovato lungo la via, fino ad entrare nella fessura della luce e rinascere di nuovo. Si era finalmente liberato di tutto, ed era finalmente libero. Quando un giorno si presentò davanti all’Altissimo, gli fu chiesto cosa aveva portato con sé, quali erano i suoi tesori. Il bambino che era diventato monaco prese con sé un angelo. Lo portò sul davanzale degli occhi di tutti quelli che aveva incontrato. L’angelo e il bambino diventato monaco stavano come davanti a tante finestre e da là vedevano tutto quello che egli aveva lasciato nella vita degli altri. L’angelo vide con stupore molti animali selvatici feriti che erano guariti e molti uomini e donne, e bambini feriti che erano tornati a vivere. Umani e animali vivevano insieme come nell’arca ed erano felici. L’angelo chiese al bambino il segreto. Il bambino rispose che la propria felicità stava nel rendere felici gli altri. Solo allora l’angelo lo riportò al cospetto dell’Altissimo. E quando fu davanti a lui, il bambino diventato monaco vide Dio che piangeva. Perché piange disse all’angelo. Dio piange, rispose l’angelo, ogni volta che muore una farfalla, ogni volta che viene reciso un fiore. Allora il bambino che era diventato monaco capì che era arrivato finalmente là da dove era partito. Si lavò nel fiume nero e in quello bianco, dove stavano Emmanuel suo padre e Margarita sua madre. Erano passati settant’anni. E Marcelo era appena venuto alla luce …