Rocco Artifoni - Alla ricerca del bene comune
“Non conformatevi alla mentalità di questo secolo,” (Lettera di Paolo ai Romani, 12, 2) «Un giorno ho pensato: perché certe persone vogliono privatizzare le cose che sono di tutti? Poi mi è venuto in mente un altro pensiero: se ora le persone vogliono tenere per loro una cosa che appartiene a tutti, qualcuno deve pur aver fatto “il primo passo”, qualcuno un giorno deve avere detto: “Questo ora è mio, da ora appartiene a me” e da lì tutto è cominciato. Inoltre mi stupisco di come alcune persone non capiscono che chiunque o qualunque cosa abbia creato il nostro pianeta, con tutti i suoi elementi naturali (es. acqua, alberi, …) non ha creato tutto quello che ci circonda solo per loro, in modo che solo loro possono usarlo e farne quello che vogliono. Al contrario quello che ci circonda è un bene di tutti, destinato a tutti. Secondo me è un grosso mistero, perché io, che ho solo 11 anni possa comprendere questa cosa, mentre altre persone adulte non la capiscono» (Arianna).
Sono sorpreso da queste parole di mia figlia. Mi ricordano quelle di Rousseau: “il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire questo è mio e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti” (J. J. Rousseau - Origine della disuguaglianza).
La terra è di chi la lavora
Che le principali risorse di cui il pianeta dispone debbano essere considerate patrimonio dell’umanità, pare quasi un’ovvietà. Al tempo stesso la proprietà privata delle terre è diventata un luogo comune accettato e condiviso quasi ovunque.
Eppure le due questioni (beni comuni e proprietà privata) sembrano in evidente contrasto logico. Uno degli scrittori che più hanno vissuto direttamente e tematizzato questa contraddizione è Tolstoj, che si ritrova proprietario terriero per provenienza familiare e vede con chiarezza l’ingiustizia prodotta dallo sfruttamento del lavoro dei contadini da parte dei proprietari terrieri.
“Allora, per la prima volta, Necliudov aveva compreso tutta la crudeltà e l’ingiustizia del sistema sociale basato sulla proprietà fondiaria privata; (…) risolse perciò subito di rinunciare ai propri diritti, cedendo ai contadini la campagna che suo padre gli aveva lasciato in eredità” (L. Tolstoj - Risurrezione). Necliudov, il protagonista del romanzo, è l’alter ego di Tolstoj, che nella realtà donò davvero ai contadini le terre ereditate. La visione e la scelta di Tolstoj viene confermata nel dramma (rimasto incompiuto e pubblicato postumo con molti tagli della censura) “E la luce risplende nelle tenebre”, dove il protagonista Nikolaj Ivanovic afferma: “la terra appartiene a tutti, vale a dire, non può appartenere ad alcuno. E per questa terra noi non abbiamo fatto alcuna fatica”, pertanto va data in uso a chi l’ha resa fertile con il lavoro.
Chiedere perdono ai contadini
Don Lorenzo Milani, dopo aver analizzato in dettaglio e profondità le condizioni di vita dei contadini del Borgo di San Donato di Calenzano in provincia di Firenze, scrive: “La nostra proposta più moderata sarebbe piuttosto una legge così redatta:
Art. 1 - La terra appartiene a chi ha il coraggio di coltivarla.
Art. 2 - Le case coloniche appartengono a chi ha il coraggio di starci.
Art. 3 - Il bestiame appartiene a chi ha il coraggio di ripulirgli ogni giorno la stalla.
Art. 4 - I boschi appartengono a chi ha il coraggio di vivere il montagna. È nostra opinione però che una così tardiva giustizia non basterebbe a fermare l’esodo. Bisogna recuperare anche tutte le ricchezze che per secoli son partite dalla terra verso i salotti cittadini (…). Rendere queste ricchezze ai loro veri proprietari, trasformarle in bagni, sciacquoni, scuole, strade, trattori, canali. Bisogna buttare tutte queste cose ai piedi dei contadini, supplicarli di perdonarci e di fermarsi. Ma anche per questo è già tardi” (don Lorenzo Milani -Esperienze pastorali- 1954).
Conosciamo la conseguente straordinaria opera successiva, svolta da don Lorenzo Milani a Barbiana, per il riscatto dei contadini di montagna, considerati i più poveri tra i poveri.
La forza della verità
Ascoltiamo ancora la voce tolstojana di Ivanovic, rivolto ai figli e agli amici: “Stavo per andarmene nella mia stanza senza manifestarvi i miei sentimenti. E questo non è bello, penso. Voi tutti che siete qui, sette o otto uomini e donne sani e giovani, avete dormito fino alle dieci, avete bevuto e mangiato, state mangiando ancora, suonate e discutete di musica; ma là di dove son venuto or ora, sono alzati dalle tre del mattino, altri, al pascolo notturno dei cavalli, non hanno neppure dormito, e vecchi, malati, deboli, bambini donne con bambini lattanti o incinte lavorano fino allo stremo delle forze perché noi dissipiamo quei frutti delle loro fatiche. E questo non basta: in questo momento uno di essi, ultimo, unico lavoratore della famiglia, viene trascinato in prigione perché nel bosco cosiddetto mio ha tagliato in primavera uno dei centomila abeti che vi crescono. E noi qui, lavati e vestiti, dopo aver lasciato nelle camere le nostre lordure alla cura dei servi, mangiamo, beviamo, discutiamo di Shumann e di Chopin quale più ci commuova e scacci la nostra noia. Io pensavo questo passando accanto a voi e perciò ve l’ho detto. Via, riflettete, si può forse vivere così?” (L. Tolstoj - E la luce risplende nelle tenebre - 1902).
Secondo Tolstoj, quando l’uomo diventa consapevole dell’ingiustizia, pur tra contraddizioni ed errori, non può che procedere di conseguenza: “Nei circoli della cultura, negli enti governativi e nei giornali, noi si discute sulle cause della miseria del popolo e sui mezzi per alleviarla. Ma ci guardiamo bene dall’accennare all’unico sicuro mezzo che indiscutibilmente solleverebbe il popolo: quello di restituirgli la terra che gli è stata tolta e che gli è indispensabile” (L. Tolstoj – Risurrezione).
Tolstoj, come Gandhi, per lottare contro l’ingiustizia crede nella forza della verità, che può cambiare il mondo e aprire gli occhi agli uomini di buona volontà, attraverso la scelta della nonviolenza e della non collaborazione con il male insito nel sistema di potere.
La violenza del potere
“Ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà” (Alexis de Tocqueville – 1847).
Ed è ancora Tolstoj a denunciare l’ingiustizia che il popolo subisce: “È evidente che voi, se continuerete come ora a non prendere in nessuna considerazione le esigenze che vengono dal più elementare senso di giustizia di tutto il popolo contadino russo, se non eliminerete la proprietà terriera, e continuerete invece a darle il vostro appoggio, e se continuerete ad esasperare in tutti i modi possibili sia il popolo sia quegli uomini sconsiderati e infuriati che han cominciato a lottare contro di voi con la violenza, non potrete certo placare il popolo stesso a forza di torture, di strazi, di condanne al confino e imprigionando e impiccando i bambini e le donne (L. Tolstoj – Non posso tacere).
E cosa accadrebbe se un contadino negasse il diritto alla proprietà privata della terra? “Se l’uomo che lavora la terra violasse questo immaginario diritto, se cominciasse ad arare quella terra che si ritiene essere proprietà di un altro, verrebbe subito in chiaro ciò su cui davvero si fonda questo presunto diritto: e avrebbe dapprima l’aspetto di una squadra di polizia, e poi l’aspetto dell’esercito, dei soldati, i quali sono pronti ad adoperare le baionette, le sciabole, o a sparare contro tutti quelli che vogliono avvalersi del proprio effettivo diritto di provvedere a se stessi con il lavoro della terra. Dimodoché quel che si chiama diritto di proprietà terriera, è solamente una violenza commessa ai danni di coloro che possono aver bisogno di questa terra” (L. Tolstoj – Così deve essere?).
La tragedia della guerra
Il nesso tra il sopruso della proprietà privata e la violenza è strettissimo: “L’atto di guerra è quando un uomo possiede 600 mila chili di frumento, mentre gliene bastano 600 per cibarsi; è quando egli non regala il superfluo. Voi mi dite che 600 mila chili di frumento costano molta fatica e che non è giusto regalare una fatica tale. La verità è che non è giusto farla. La pace è la qualità degli uomini misurati. (…) Forza, contadine di tutto il mondo, illuminate un po’ il lugubre mattatoio dove i vostri uomini vengono scannati. Perché continuare a fornire il pane ai loro macellai? (…) Voi che non sapete scrivere potete scrivere la frase più potente e più nobile di tutti i tempi: “Le sottoscritte contadine si impegnano in caso di guerra a distruggere le riserve di frumento che saranno in loro possesso e a coltivare la terra solamente per il proprio fabbisogno personale”. (…) Guarire dalla peste non è regredire, ma recuperare la salute. È disertare il male. L’intelligenza è disertare il male (Jean Giono -Lettera ai contadini sulla povertà e la pace- 1938).
Il nazionalismo può essere considerato un’estensione a livello collettivo del concetto di proprietà privata della terra. Infatti, sono i confini che delimitano sia ciò che è mio che ciò che è nostro.
“Il patriottismo (…) è quel sentimento assai netto che ci fa preferire a tutti gli altri il popolo o il paese al quale apparteniamo e ci spinge a desiderare per esso tanto benessere e potenza quanto potrà acquistarne coi mezzi ordinari, e cioè a danno del benessere e della potenza delle altre nazioni. Si vede chiaramente che il patriottismo, cattivo e dannoso come sentimento, è stupido come dottrina, perché è evidente che, se ogni popolo o ogni paese si crede superiore a tutti gli altri, il mondo intero precipiterà in un errore funesto e grossolano” (L. Tolstoj -Patriottismo e Governo- 1901).
Oggi sappiamo, dopo la tragedie e i milioni di morti delle due guerre mondiali, quanto avessero ragione Tolstoj e Giono. Stupisce come parole di evidente buon senso, pronunciate nell’interesse dell’umanità, siano state totalmente ignorate. Nella storia abbiamo avuto profeti che hanno saputo indicare per tempo i pericoli, eppure l’umanità ha continuato imperterrita verso l’abisso.
Lo spirito di fratellanza
“La terra, come l’acqua, l’aria, i raggi del sole, è una condizione indispensabile per la vita di ogni individuo, e perciò non può essere proprietà esclusiva di uno solo” (L. Tolstoj - Così deve essere?).
Oggi la situazione non è sostanzialmente cambiata rispetto ai tempi di Tolstoj, che nei sui libri ricorda più volte di aver appreso queste idee da Henry George: “Tutti hanno ugual diritto alla terra e ai benefici che concede agli uomini”.
Il problema dell’accesso di tutti gli uomini alle risorse del pianeta, con la globalizzazione è diventato ancora più attuale e fondamentale: “Spostando lo sguardo sui beni comuni, dunque, non siamo soltanto obbligati a misurarci con problemi interamente nuovi. Dobbiamo sottoporre a revisione critica principi e categorie del passato. Dobbiamo rileggere in un contesto così mutato la stessa Costituzione, quando stabilisce che la proprietà dev’essere resa “accessibile a tutti” (…). Qui è l’ineludibile agenda civile e politica non di un solo paese, ma di tutti coloro che vogliono affrontare con consapevolezza e cultura adeguate le questioni concrete che ci circondano” (Stefano Rodotà -La Repubblica- 10 agosto 2010).
Come c’è scritto nella Costituzione Italiana (art. 41), “l’iniziativa economica privata è libera”, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Putroppo, la “finalità sociale” indicata chiaramente dalla Costituzione Italiana e lo “spirito di fratellanza” che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (art. 1) prescrive come dovere, non occupano i primi posti dei programmi concreti dell’Italia e della Comunità Internazionale.
Il debito verso il pianeta
Il Global Footprint Network ha segnalato che nel 2010 l’Earth Overshoot Day, cioè il giorno in cui a partire dal 1° gennaio sono state utilizzate tutte le risorse che la Terra produce in un anno, è risultato il 21 agosto, quattro mesi prima della fine dell’anno e un mese prima rispetto al 2009.
Ciò significa che quest’anno stiamo consumando oltre 50% in più delle risorse che l’ecosistema può mettere a disposizione. In altre parole il ciclo naturale terrestre sta “indebitandosi” sempre più. Stiamo vivendo con un ritmo superiore alle possibilità: ci vorrebbe un pianeta e mezzo per coprire l’attuale fabbisogno. Tenendo conto che disponiamo di una sola Terra, stiamo percorrendo pericolosamente una china che può portare in pochi anni alla bancarotta ecologica del pianeta. L’ONU prudenzialmente stima che continuando con questo ritmo di consumo dei beni ambientali (aria, acqua, foreste, cibo, ecc.) nel 2050 avremo bisogno dell’equivalente di due pianeti per il nostro sostentamento. Per la maggior parte della storia umana abbiamo vissuto sulla Terra con un saldo positivo tra risorse generate e rifiuti prodotti. Ma negli ultimi decenni il conto corrente da cui ogni anno possiamo prelevare risorse chiude il bilancio sempre più in rosso.
Soltanto se rimetteremo in ordine in breve tempo i conti ecologici, la vita sulla Terra potrà continuare anche per le future generazioni.
I nostri nonni ci raccomandavano saggiamente di non fare mai il passo più lungo della gamba. Se andiamo avanti di questo passo, i nostri nipoti ci rimprovereranno giustamente per non aver ascoltato i loro antenati. Abbiamo smarrito il bene comune. Speriamo di avere il buon senso di ritrovarlo in tempo.
Nota: per un inquadramento e approfondimento della figura di Tolstoj, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla morte, si può leggere l’interessante libro di Bruno Milone, Tolstoj e il rifiuto della violenza, Edizioni Servitium, 2010.