Cinzia Vaccari - L’album dei ricordi: click!


Mi trovo davanti a questo foglio bianco e vorrei riuscire a scrivere un omaggio alle donne un po’ nuovo, magari un articolo diverso da quello che si legge da anni, ma non so da dove iniziare. Anzi, ho troppe cose che mi si affollano e spingono contro la fronte per uscire, quindi decido di fare uno scritto in tanti click, tante Polaroid, tanti scatti veloci, tante immagini e tutto il mio sentire raccolti in questo articolo, che diventerà un album fotografico da leggere con il cuore e la testa.

CLICK – Foto di gruppo “Mondine”. Scatto questa foto oggi, mentre mi accingo ad incontrare un gruppo di donne che hanno fatto della raccolta del riso -la monda- il loro sfamarsi in gioventù.

Eccole, donne mature, molte delle quali ottantenni, donne che vanno di festa in sagra a cantare gli stessi canti di protesta, di malinconia e d’amore, splendidi canti che hanno riempito le campagne del vercellese e quasi tutta la Pianura Padana, per più di cent’anni.
La loro musica e le loro parole difendono un’antica idea del secolo passato; le loro parole urlate in coro ricordano oggi il loro duro lavoro, che è stata una vera lotta per la libertà.
Donne che cominciavano la monda nelle risaie fra i 13 e i 75 anni.
Eccole davanti a me. Sedici mondine che hanno deciso di incontrarmi oggi. Se ora potessi fare una foto, sarebbe piena della loro voglia di vivere, un’energia spettacolare.

CLICK – Piazza del paese, ufficio di collocamento comunale. Reclutamento della manodopera. Come ogni anno, l’ufficio regionale ha mandato il numero di donne da arruolare per la monda e la piazza è tutta un fermento femminile. Ogni ragazza, ogni donna del paese è qua, immortalata in questo scatto, un serpente che si snoda per tutta questa piazza vista dall’alto.

Purtroppo non c’era posto per tutte. Il numero era quello e basta, e quindi si cominciavano le graduatorie di precedenza. Erano avvantaggiate, se così si può dire, le persone più povere, anche se la povertà in Italia in quegli anni era un male comune. Si cercava di differenziare chi aveva poco da chi non aveva niente; sembra la stessa cosa, ma da poco a niente c’è un abisso. Venivano selezionate anche per famiglia: se una ragazza aveva altre due sorelle, tutte pronte e bisognose di partire, una andava e due restavano, così da poter dare a più famiglie la possibilità di sfamarsi. Ad alcune bambine veniva dato il consenso di partire assieme alle loro madri, e queste diventavano le mascotte dei gruppi, quasi fossero figlie comuni.
Se eri un “camerànt” eri avvantaggiata, perché eri una prestatrice di lavoro: ti spostavi con niente da un appezzamento di terra ad un altro e ti veniva dato un posto per dormire. Per questo venivano chiamate “cameranti”, e di proprio non avevano nulla.
Chi aveva già un lavoro e la possibilità di sfamare la famiglia non partiva.
In quella foto si possono intravedere, guardando con molta attenzione, alcuni uomini. Anche loro entravano nelle graduatorie. Tre uomini ogni cento donne, che servivano nelle cascine e nelle risaie per fare dei lavori diversi dalla monda del riso: quello era un patire che spettava solo a belle gambe nude di donna. Inutile dire che chi veniva escluso dalla lista di partenza vedeva sfumare la possibilità di garantirsi un’opportunità importantissima, in quanto chi tornava dalla risaia poteva garantire il mangiare a casa per parecchi mesi.
E la piazza diventava ring: urla, liti e botte, succedeva che alcune si picchiassero a sangue per avere la possibilità di vedere il proprio nome su quella stramaledetta lista.

Credo non serva una didascalia a questo click. Quello che vedete è ciò che era.

CLICK – Eccole, le mondine di Nonantola. Tutte ammassate davanti alla minuscola stazione dei treni, il binario unico che portava alla stazione di Modena. Un fiume di donne e bambine di ogni età, con la loro “càsa”. Non se ne è mai vista mondina senza la sua cassettina a baule, costruita dai propri uomini e padri, una dote per le risaie.

Se si fosse potuto fare una radiografia di una di queste casse, vi si sarebbe trovato senza dubbio una grande federa, che alla cascina sarebbe stata riempita di paglia per diventare il “paiòn”, il loro materasso, un letto fatto di paglia e polvere. Le più fortunate avevano fino a tre cambi di mutandine, e in tutte le casse vi era almeno un paio di pantaloncini corti, loro divisa da lavoro, un cambio per le ore fuori dall’acqua, una ciotola usata come piatto e poco altro. Chi li aveva, si portava dietro un pezzo di sapone, a volte cipria e rossetto.
La cassa serviva loro per affrontare il viaggio anche come unico punto su cui sedersi dentro i vagoni bestiame. Nella stazione di Nonantola, arrivava sull’unico binario, partita da Ferrara, la Marianna, la “Marianèina”, come tutti in questo paese chiamavano la locomotiva che raccoglieva le mondine per portarle a Modena, il punto di ritrovo per tutte le mondine della provincia. Le nostre nonne e mamme, le stesse che ho incontrato oggi con il loro bagaglio di ricordi amari e dolci, nitidi anche se carichi di polvere come le cose passate che non si possono abbandonare, perché troppo care e troppo nostre.
Non tutte erano così fortunate da arrivare a Modena in treno: quelle che provenivano da Sestola, Pavullo e altri luoghi di montagna, raggiungevano il posto sui cassoni dei camion.
Una volta giunte a Modena, prima di salire sui carri bestiame, veniva consegnato loro un sacchetto che conteneva un panino, dell’acqua e la famosa crema per le gambe, che avrebbe dovuto salvarle dalle zanzare e dagli altri insetti assetati di sangue, padroni di casa dentro le risaie dove avrebbero trascorso i successivi quaranta giorni.
Mentre ascolto i loro racconti sempre carichi di positività, mi vedo passeggero di quei vagoni, mi immagino migrante verso quello che loro chiamavano un lavoro sicuro e garantito.
Il viaggio spesso iniziava alle 6 o alle 7 del mattino e finiva, per quelle delle cascine più lontane, verso le 2 o le 3 della mattina dopo. Durante questo lungo viaggio, i bisogni fisici ti ricordavano che non si può aspettare troppo, e quindi chi aveva bisogno di un servizio igienico si doveva arrangiare tenendosi stretta ad una sbarra e sedere fuori dal portone del vagone. Serviva essere unite anche in quest’occasione, anche per compiere il gesto più naturale e intimo era necessario fare gruppo e darsi una mano a vicenda. Per l’occasione i vagoni venivano puliti (poco o per niente, in realtà) e la puzza era una loro compagna di viaggio.
Arrivate nelle stazioni di destinazione, c’erano i “cavalànt”, ossia degli uomini sui birocci (carri trainati da cavalli) che le facevano scendere da un cassone scomodo per farle salire su uno ancor più scomodo. Venivano quindi portate nella cascina che sarebbe diventata la loro casa.
Le loro camere erano situate sopra le stalle di quella corte. Fienili immensi, tanta paglia, tante travi e notti intere in compagnia di topi che non erano per nulla intimoriti da queste nuove e chiassose presenze. I servizi igienici erano inesistenti, quindi anche qua i bagni erano improvvisati: si scendeva la scala del fienile e nel buio si pisciava velocemente, già in piedi per esser pronte a risalire. Quando i bisogni richiedevano più tempo si andava in riva ad un fosso, quelli non mancavano mai.

CLICK – Foto di mondina con didascalia “Mondina, 1923”

Per ogni gruppo di mondine, che poteva essere composto da circa 110/150 donne, vi era una “prima mondina”, scelta fra le donne del paese prima di partire, che serviva come tramite e come unica voce fra loro ed il padrone. Se era brava e capace di arruffianarsi il padrone, di sicuro sarebbe stata una buona “campagna”. Le mondine della squadra non parlavano mai al padrone: il loro unico modo, quella che poi è diventata la loro arte, era quello di comunicare tutto tramite canzoni dai testi inventati, che nascevano durante la monda. Sotto al sole, voci che si ergevano da bocche all’ombra dei grandi cappelli di paglia che venivano distribuiti il primo giorno di lavoro. Tutte in coro.
Mi dicono che nessuna di loro indossava mai l’orologio, perché quello era un simbolo del potere ed era il padrone che comandava l’inizio e la fine della giornata. All’interno delle squadre di lavoro vi erano alcune donne che svolgevano determinate mansioni: c’era la cuoca che provvedeva al pranzo e alla cena (oltre a coprire lo stesso un turno più piccolo in risaia). Vista l’importanza del suo ruolo, veniva scelta prima della partenza assieme alla “prima mondina”. C’era anche la “berlettera”, che procurava l’acqua per dissetare le compagne nel caso fosse troppo lontana dalla risaia. Per riposarsi un po’, raccoglieva l’acqua da un fosso poco distante, si riposava quello che bastava a giustificare il tempo che serviva per andare a prenderla alla fonte, e poi tornava a dissetare le compagne con l’acqua un po’ più verdina del solito, l’acqua di fosso.

Gli orari di lavoro e delle giornate di monda sono cambiati nel corso degli anni. Fra il finire dell’800 e l’inizio del ‘900, l’orario di lavoro era chiamato “da sole a sole”, un pasto unico al giorno e nessun tipo di igiene.
Poi, col passare degli anni, lotte, scioperi, scontri con la celere, arresti, botte per avere la possibilità di regolamentare il contratto di lavoro e lavorare senza essere schiave. Ottenute le otto ore di lavoro al giorno, le cose andarono meglio. I pasti aumentarono a due: a pranzo riso e fagioli, a cena fagioli e riso, a volte anche con la carne se il riso era vecchio e già abitato.
Verso gli anni ’50 si ottennero anche delle camerate con servizi igienici. Alcune videro e provarono anche le docce, un lusso che poche di loro avevano provato diversamente. Al giovedì e alla domenica, nei pasti venne aggiunta anche un po’ di carne, però questa volta volutamente. In più, umidi con patate e un quarto di vino alla domenica.
Il trattamento riservato alle mondine sembrava andasse veramente meglio, pensando a quanto erano cambiate le cose da quel lontano 1° giugno 1906 quando, a Vercelli, era stato firmato il primo regolamento per il lavoro nelle risaie. Ora, nel 1955, si sentivano rispettate come lavoratrici, quando arrivò un altro nuovo vero nemico: il pesticida diserbante. Cominciò a lavorare lui e finimmo loro.

La parte riguardante le lotte con l’esercito e la cavalleria nel primo ‘900 la raccontano svogliatamente e velocemente, preferiscono parlare del loro vivere giorno per giorno, duro ma bello, tragico ma anche divertente. Che storie tristi di scontri e botte, e quindi questo click non lo metto. Voglio rispettarle, ma soprattutto voglio riportare questa voglia di esserci e di essere state là.

Avevamo anche un dottore, nel caso in cui qualcuna si sentisse male. Arrivava dopo 2 o 3 giorni e se non eri più in grado di lavorare, venivi rispedita a casa, perdendo la grande occasione di guadagnare per te e la tua famiglia quanto sarebbe bastato per quasi un anno, in aggiunta a qualche lavoro come cameriera, “camerànt” o lavoratrice della “pavéra”, la paglia che serviva a costruire borse e sporte. Se invece la tua malattia era curabile, ti veniva data una pastiglia (sempre la stessa per ogni male, la “pastiglia bianca”), guarivi e tornavi a gambe in acqua tra bisce, rane, sanguisughe e zanzare. Quelle non mancavano mai e non si potevano mangiare come le rane, che spesso catturavamo e nascondevamo nei vestiti sulla via del ritorno.
Didascalia a fine click di queste giornate di lavoro: Scottate dal sole, mangiate dagli insetti, a gambe nude. Non le vedo poi così diverse o meno precarie dei lavoratori immigrati che vivono nei nostri paesi. Passano gli anni, ma le cose mantengono lo stesso amaro sapore.

CLICK – Gruppi di ragazze e donne a passeggio per le vie dei paesini piemontesi.

Erano due gli sguardi degli abitanti. Le donne, vedendoci, mormoravano frasi come “Eccole, sono arrivate le zingare” oppure “Sono arrivate di nuovo le scaruse (prostitute)”. Ci detestavano perché temevano che rubassimo loro gli uomini, ci vedevano assetate d’amore e quindi, con i nostri pantaloncini corti e tante belle paia di cosce al vento, una sicura minaccia.

Ridono in coro come in una delle loro canzoni e io immagino tutte queste belle figliole che riempivano campagne e paesi di canti, pensando che la minigonna non è stata inventata negli anni ’70, sono loro le vere antenate delle gambe scoperte.

Gli sguardi degli uomini, invece, se si fossero potuti animare, sarebbero stati tradotti in vere e proprie boccate di ossigeno per il cuore e gli ormoni. Inutile dire che molte mondine sono poi invecchiate in Piemonte e che molti piemontesi sono nostri compaesani. L’amore è amore.
Alla sera, dopo il famoso bagno nei canali del fine lavoro e la cena, c’era la libera uscita. Si ballava nelle cascine, dai cancelli aperti entravano giovani vestiti più o meno da festa, e si rubavano baci e altro, perché no, fino all’ora della ritirata, le 22:00. Non tutte, però, scendevano per i balli. Non va dimenticato che fra loro vi erano madri di famiglia che avevano lasciato a casa bambini piccoli e mariti, quindi nelle camerate vi era chi si incipriava il viso per coprire il rosso donato dal sole e chi piangeva disperatamente. In tutti e due i casi, fare la mondina restava sempre una vita dura, e di questo sono rimasti in loro tanti ricordi pesanti.

Qui, come didascalia, vi lascio la considerazione che ho fatto io: il loro vivere, il loro essere lontane dai figli non è molto diverso da quello delle nostre badanti che per anni non tornano a casa a vedere i loro cari.

La gioia era tanta, ma anche la tristezza per quei legami d’amore o di amicizia che si dovevano rompere senza la certezza di poterli riallacciare l’anno successivo.

CLICK – Nel cortile della cascina, pronte per il ritorno a casa dopo un mese e mezzo. Il padrone e la prima mondina pronti a consegnare la paga. Ogni donna con la propria “càsa” si avvicina e le vengono consegnati i soldi guadagnati in tutta la stagione di monda. Gli straordinari no, perché già pagati in precedenza a fine giornata a chi li aveva fatti.

Ci si metteva un fazzolettino di stoffa in seno tra camicia e tette, puntato con delle spille, e i soldi venivano custoditi lì, con i nostri corpi, fino al nostro ritorno a casa. Le piccole mondine partite con le madri, troppo piccole per essere messe a busta paga, venivano pagate da una sorta di colletta fatta mettendo insieme le offerte che tutte le altre compagne si toglievano dal seno per loro. Poi il padrone dava ad ognuna un sacco di riso: “Tanti giorni, tanto riso”.

Chiudo questo album con l’ultima didascalia. Credo che basti una sola parola: Solidarietà.

Finito il nostro incontro mi accingo a ringraziare queste donne, mie compagne di viaggio in questo splendido pomeriggio con tanta carta scritta dei loro ricordi. Per salutarmi, intonano dei canti e io mi commuovo mentre penso che il loro spirito di gruppo è contagioso e sono felice di esserne stata “contagiata”.
Peccato che tutto questo sia solo un articolo. Ho fatto fatica a contenermi in questo scritto, potrei farne 16 racconti, un libro.
Ringrazio il gruppo delle mondine di Nonantola per il tempo che mi hanno regalato e concludo allegando questa poesia datami da Flora mentre mi stringeva la mano in un arrivederci.

Piccola mondina
Quattordici anni appena compiuti
Casetta di legno
Cappello di paglia
Una vecchia tradotta
Sono partita per la risaia
Là mi attendeva un duro lavoro
Acqua stagnante
Insetti pungenti divoravano le mie giovani gambe
Il sole mi bruciava la schiena
Il coro delle compagne mi dava la forza di andare avanti
Alla fine della giornata
Un tegame di riso
Un materasso di paglia
Dove affogavo i miei giovani pensieri
E pensavo al calvario del giorno dopo
Alla fine della campagna
Un pugno di soldi
Un sacchetto di riso
E di nuovo la vecchia tradotta
Che mi riportava a casa mia
Al mio piccolo paese
A me tanto caro

Flora