Antonietta Potente - Dalla paura alla speranza
“Cuando soñamos que soñamos está próximo el despertar”, dice Novalis. No importa, pues, que las respuestas que demos a nuestras preguntas sean luego corregidas por el tiempo; también el adolescente ignora las futuras transformaciones de ese rostro que ve en el agua: indescifrable a primera vista, como una piedra sagrada cubierta de incisiones y signos, la máscara del viejo es la historia de unas facciones amorfas, que un d’a emergieron confusas, extra’das en vilo por una mirada absorta. Por virtud de esa mirada las facciones se hicieron rostro y, más tarde, máscara, significación, historia. (Octavio Paz. El laberinto de la soledad)
Quando sogniamo che sogniamo il risveglio è già vicino
Forse è questo ciò che ci manca: sognare che sogniamo e forse ci manca perché per troppo tempo ci hanno insegnato che sognare non è così utile come pensiamo, perché le risposte alle nostre domande -come scrive l’autore- vengono corrette con il tempo. Ma queste correzioni sono importanti, anch’esse fanno storia, la nostra e quella degli altri, tra trasformazioni e trasfigurazioni, lente o veloci, ma comunque metamorfosi di ciò che accade o può accadere non solo una volta ma mille e un milione di volte.
Dalla paura alla speranza dunque, un tema propizio per noi oggi e sempre, esseri umani fatti di paure e di speranze, altrimenti moriremmo tristi e soli.
La paura, questo stato o sentimento, che percepiamo ancora prima di vivere, sentendoci non protetti, sentendoci allo sbaraglio, alla vista di tutti o di qualcuno, in qualche modo invasi.
La speranza, legata alla ricerca di qualcosa che percepiamo, qualcosa che dovremmo scoprire, riconoscere. Forse è proprio questo, non abbiamo speranza perché non conosciamo la realtà, o la conosciamo tra pregiudizi e certezze acquisite ma mai verificate e, forse, rinnovate. In noi c’è molta preoccupazione dovuta a preconcetti e a tutto ciò che in realtà solo ignoriamo. In questo senso la sapienza evangelica così come altre sapienze disseminate nel mondo e nel tempo, ci invita: guardate i gigli del campo… gli uccelli del cielo… Si tratta di una proposta di riconoscimento; guardate per riconoscere, non per imitarli, perché a noi non è chiesto -come invece misticamente pensiamo- essere gigli o uccelli del cielo.
Sono sempre più colpita da quanto sia ristretta la nostra visione e dunque la nostra speranza, perché la speranza non arriva all’improvviso, la speranza si impara, probabilmente si impara soprattutto con gli altri, guardando, riconoscendo, imparando, stupendoci, ritrovando la vita, quella che non appartiene a noi, ma che esiste. La speranza non la danno le ideologie -come a volte abbiamo pensato- né politiche, né religiose. La speranza si scopre, si ritrova, si intravede. Come ogni “virtù” come direbbero gli antichi, non appare all’improvviso, ma cresce con noi, però dovrebbe davvero crescere. Noi l’abbiamo affidata al mondo della religione, della teologia, la inseriamo nella triade delle virtù teologali, protesa e riferita a Dio, ma invece, forse, potremmo riscoprirla come una delle possibilità più belle e vere che attraversa le fibre dell’esistenza, nella più svariata biodiversità dell’umanità e della natura. è un processo di resistenza e forse per questo è più consono a noi e alla nostra vita o alla vita in generale, che alla sfera delle divinità umano-cosmiche. La speranza abita gli sforzi, è spinta, si libera negli attriti di forze contrarie; sospinge atteggiamenti e idee, sogni ad occhi aperti e chiusi, passioni e ricerche. La speranza nessuno la può vendere o comprare, come se fosse un oggetto, è ciò che nasce con noi e cresce con noi, scavando i nostri propri pozzi e osservando come gli altri scavano i propri. La speranza non viene con un messaggio, con una massima o una dottrina; non è una parola magica, ma si coltiva in metamorfosi segrete di cambiamenti profondi di individui e intere comunità umane. Segue processi di riscoperta della propria dignità, delle proprie capacità, percorsi di autostima, di riscoperta della vita e delle sue possibilità. è processo di liberazioni da ogni idolo, sia politico che religioso e da ogni populismo. Essendo una virtù, riprendendo sempre l’antico adagio dei pensatori medievali, è più legata a processi di quotidianità che a solenni e veloci soluzioni o benedizioni piovute dall’alto. Per questo forse oggi conosciamo più la paura che la speranza, perché la nostra familiarità con il tempo e le sue dinamiche, è sempre meno. Conosciamo bene i tempi virtuali, le notizie di sintesi e per questo veloci; conosciamo i commentari e ci compiacciamo di ogni notizia che ci viene presentata nelle sue più limpide sintesi. Non amiamo gli sforzi, la voglia di ricercare, il senso del silenzio e del non capire. Parliamo di dialogo senza ascoltare, ma soprattutto sempre con il desiderio che tutto diventi tollerante, ma tutto, allo stesso tempo rimanga come sempre. La speranza non è neutrale e nasce nel difficile parto della vita, con cui, l’umanità, nonostante cammini da secoli, non ha ancora imparato ad andare. Raccolgo, nel disordine di queste sensazioni e pensieri che semplicemente aprono una porta, una frase molto bella di Carl Jung: … noi abbiamo un debito con l’immaginazione… è vero, noi abbiamo un debito con l’immaginazione, perché non sopportiamo restare a lungo senza sapere; la luce ci procura degli strani pruriti e ci perdiamo nelle attese silenziose e lente. Cerchiamo dunque la possibilità di imparare di nuovo a leggere la vita e la storia; ci saranno persone, animali e fotosintesi umane e cosmiche, più o meno segrete che ci aiuteranno a riscoprire che la speranza esiste ma semplicemente soggiace e solo coloro di cui veramente ne hanno bisogno, la cercano e la riconoscono tra tendenze, aspirazioni, attese di qualcosa che desideriamo. Ma è proprio vero che noi desideriamo?