Cinzia Vaccari

Una persona può essere: volume ingombrante?



A Pasquetta, come ogni festivo da cinque anni, non si fanno progetti di viaggi o giornate fuori porta. Mia madre non è autosufficiente da quando, all’età di cinquantasette anni, una malattia bestia e violenta l’ha trasformata da donna piena di vita, autonoma, indipendente e vitale in un’altra persona; una nuova mamma, come dico io. A me e ai miei fratelli la vita ha dato anche questo… due madri con lo stesso sangue, gli stessi occhi stupendi e lo stesso sorriso.
Due madri in una che portano dentro la vita passata e questa vita nuova che abbiamo, nostro malgrado, dolorosamente imparato ad accettare. Aneurisma cerebrale, seguito da un devastante intervento e mesi di coma ce l’ha restituita rinata a questa nuova vita che di uguale a prima, forse, ha solo il profumo della sua pelle, quell’odore che ogni figlio riconosce come proprio, appoggiando un bacio tra il collo e la spalla, nicchia di profumo. Profumo che ricorda notti di coccole nel lettone a combattere febbri e malattie infettive a mani piene di carezze. Quel profumo di abbracci anche da adulti dopo il pranzo della domenica con le nostre famiglie.
Quando lo sconforto ci prende e la stanchezza non ci dà tregua, sniffiamo l’odore della mamma e continuiamo questo vivere diverso che ha cambiato e, perché no, migliorato i nostri cuori. È difficile da comprendere per chi ha avuto la fortuna di non passare per questo tunnel di dolore, è dura da capire come sia il suo e il nostro vivere dopo che mamma Renata è rinata, un misto di passato e presente nuovo e sconosciuto. Un presente che vede lei figlia e noi genitori.
Nostra madre abita nella mia stessa casa, in un appartamento che è stato attrezzato il meglio possibile per ospitare lei e la sua nuova vita, fatta di gesti quotidiani, sempre gli stessi, in fila come soldati, in un ordine preciso, quasi maniacale, per darle la possibilità di capire come compiere da sola i propri pochi gesti. I gesti di quella che viene definita autonomia e che servono come esercizio mentale per mantenere in movimento il suo cervello abusato violentemente dalla malattia. Con lei vive la signora che se ne prende cura quando io sono al lavoro e mentre mi prendo cura dei miei figli, quando io e i miei fratelli cerchiamo di continuare a farci le nostre rispettive vite.
Non è semplice vivere con questo dolore sempre appoggiato sulla spalla. Lavoro e lei è con me, mi occupo dei miei figli e lei è con me, anche mentre guido lei è con me, lì, sempre lì, sulla spalla sinistra c’è la sua presenza, il suo vivere fra la mia testa e tutto quello che faccio. Anche quando il mio pensiero è lontano lei ne fa parte. Non so se sia corretto pensarlo o scriverlo, ma questa malattia è il nostro nuovo cordone ombelicale.
La signora che vive con lei, la badante… una parola che non amo pronunciare, mi fa pensare a tutte le persone assistite da queste donne come ad un gregge, e loro gregge non sono. Preferisco pensare a Oksana, questo è il suo nome, come ad un’amica, parente, dipendente per mestiere da mia madre, una persona che si occupa delle cure di un’altra persona e non come a un pastore badante.
Anche l’accettare che mia madre dipenda dalle cure di altri non è stato semplice per me: non è stato facile accettare di dividere intimità, pannoloni, cateteri e corpo nudo con una persona estranea, una creatura non uscita dalle sue carni come è stato per noi tre; ma questa elaborazione, questo accettare è un’altra storia. Quando sarò riuscita a conviverci, quando avrò sciolto dalla gola questo nodo sanguinante, forse in quel momento, quel giorno lontano riuscirò a raccontare e a scrivere anche questo. È del Lunedì dell’Angelo, di questo lunedì di nuova Pasqua che volevo rendervi partecipi.
Oksana ha giustamente la sua giornata di riposo, per me e i miei fratelli i tempi di festa sono altri. È gestione nostra, sono turni fatti senza il rosso sul calendario, è una gestione fatta sulla nostra pelle, sui nostri accordi, il nostro calendario non è quello appeso ad un chiodo in cucina accanto all’orologio.
La mia bambina di undici anni ha voglia del mercato del lunedì che si svolge a Modena, e a Renata il mercato piaceva sempre frequentarlo quando la sua testa e le sue gambe la portavano insieme alla sua macchina nei giorni della prima vita in cui poteva, dopo il caffé del buongiorno, decidere di farci un salto veloce prima di marcare il cartellino dei suoi trentotto anni lavorativi.
Quindi posizione madre e carrozzina nel Doblò attrezzato per i suoi spostamenti, scattano le cinture di protezione per tutte e tre le passeggere e finalmente partiamo verso la nostra mattina di Pasquetta fuori, tra la folla di visitatori. Tre corpi, tre donne in un unico vivere.
Slaccio ganci e cinture, scivola la carrozzina sulla pedana dell’auto e vorrei avere cinque mani: due per stringere i pomelli della sedia a rotelle, una da dedicare a mia figlia e, perché no, altre due per andare ad accarezzare le loro teste. Ma devo fare con le due che ho sempre avuto, che si muovono svelte cercando di bastare a tutto.
Le guardo e i nostri tre sorrisi sono una cosa sola, gli occhi sono dissimili: i miei un po’ tristi per le occasioni perse di mia madre, i loro eccitati e felici per questo shopping tra banchi di stoffe e profumi di orto venduto a casse.
Cominciamo a passare tra i banchi, cercando di essere meno d’intralcio possibile, siamo volume ingombrante per chi usa le gambe e ha mani libere.
Questo lo capisco quasi subito perché comincia la prima botta sui denti. Siamo affiancate per caso da un’altra persona diversamente abile e un signore, credo sui settant’anni, dice ad un altro, nel nostro dialetto e in un tono sostenuto, una frase che fino ad oggi mancava alla mia collezione di cattiverie:
«Una volta li tenevano in casa, non si vedevano in giro per le città e non siamo stati abituati a vederli, a trovarceli di fronte; io resto sempre po’ sorpreso e a disagio, poverini.»
Li guardano con lo sguardo di chi vede meno persona. Li guardano con lo sguardo di chi sta lontano per pietà e per paura che questo possa capitare anche a loro, ma non per destino, piuttosto per contagio.
Spingo i miei occhi nello sguardo di quei due uomini di Modena, pensando che le loro biciclette portate a mano siano d’impiccio quanto le due sedie che occupano mia madre e l’altro signore, con l’unica differenza che loro possono camminare e depositare le biciclette per poi spostarsi senza, nel rispetto degli stinchi degli altri. Noi no.
Evito qualsiasi tipo di commento a risposta, non voglio che questo mi guasti o, peggio, guasti il sorriso delle due mie compagne di avventura.
Per un breve tratto tutto è tranquillo e cominciamo a riempire gli occhi di prezzi, sconti e colori. Gioia, mia figlia, un nome un destino, comincia a fermarsi e a misurarsi delle magliette. La lascio fare, stando attenta a non perdere di vista la sua testolina curiosa fra tutta quella gente.
Non è semplice: le persone prese dal comprare non cedono di certo il passo ad una donna seduta, anzi sono io che devo cercare di non prendere contro a nessuno, e soprattutto non posso distogliere l’attenzione da Gioia, anche se mi è impossibile avvicinarmi ai banchi. Solo alcune donne straniere cedono il posto in prima fila a Renata che, finalmente, riesce a vedere le stoffe ammucchiate in piccoli recinti dai prezzi diversi. Gioia è prudente, ormai lo sa, ogni tanto i nostri occhi s’incontrano ed è lei che mi rassicura di non perdersi e di non allontanarsi troppo da noi. Conosce dall’alto dei suoi undici anni che muoversi con me e la nonna comporta tempi e regole diversi da quando ci muoviamo solo io e lei. Questa sua attenzione e questa sua sensibilità mi commuovono sempre.
Sento il pizzico che sale ad inumidirmi leggermente lo sguardo e scaccio via quel senso di colpa che mi sale tutte le volte che questa malattia di mia madre limita anche un po’ i miei figli, ma poi li vedo sereni e pronti a trovare un accordo e un compromesso assieme a me perché né loro né la nonna debbano rinunciare a ciò che “si può fare”. Non è sempre facile, anzi, credetemi, è un domino continuo, ma è parte delle nostre vite, e quando li vedo scegliere di passare un po’ del loro tempo con la nonna piuttosto che altro senza che nessuno glielo chieda capisco che il mio lavoro e la mia fatica nel cercare di gestire tutto non sono vani. Arriva nel giro di un attimo un’alta marea di gente e ci troviamo ferme, imbottigliate fra tutti.
Siamo tre con tre modi di vivere quel momento. Io dall’alto guardo oltre per cercare un modo di svincolarci senza essere d’intralcio a chi ha già cominciato a spingere. Mia madre, seduta, ora vede solo fianchi, culi e pance di gente intorno. Sono preoccupata che possa essere bruciata da mani che reggono sigarette all’altezza del suo viso, rette da persone sbuffanti già pentite di essere lì. E Gioia vede la mia schiena, visto che per non essere spintonata è attaccata con le manine alla mia maglia.
Un ragazzo, direi di origine indiana, mi è di fronte, anzi è di fronte a mia madre, che è col naso ad un palmo dalla cintura dei suoi jeans. Mi sorride, si volta e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se lo facesse di mestiere, delicatamente e con un sorriso cerca di aprire un piccolo varco fra la folla, separandola gentilmente. Ricambio il sorriso con un cenno della testa mentre mentalmente ringrazio questo giovane Mosé.
Sono quasi uscita da questo ingorgo di carne quando mi trovo viso a viso con una signora, a occhio e croce dell’età di mia madre, che mi guarda e comincia ad inveire col tono fermo e deciso di chi sa di avere in pugno chissà mai quale verità.
Sento chiare e forti le parole che quasi sputa contro di me in una pronuncia che riconosco. Non si può venire al mercato con la carrozzina, la gente non riesce neanche a muoversi! C’è gia abbastanza casino senza che si venga ad intralciare il passaggio!
Come posso far finta di niente? Come posso scegliere di non rispondere a questa ignoranza, immobile sulle sue gambe di fronte a me? Tra i denti mi esce un mezzo insulto incomprensibile, ho la lingua dura come un fasolaro di mare troppo cotto.
Vorrei spiegare alcune cose a questa rezdora modenese a proposito del diritto al vivere di ognuno, del rispetto verso il prossimo. Vorrei dire a quella fortunata che riesce a farsi portare in giro dalle proprie gambe, che anche chi ha raggi e camere d’aria al posto di muscoli e nervi è “gente” che può andare al mercato e in ogni dove.
Ma com’è brava questa gente, che belle persone che siamo! Riempiamo le bocche di parole come tolleranza e uguaglianza, abbiamo sale di partito e punti di aggregazione dove solidarietà è la parola più pronunciata e più sfruttata, creiamo situazioni in cui abbiamo la presunzione di poter insegnare con il nostro esempio ad altri, ci permettiamo di credere di parlare di culture diverse, fingiamo di accettarle pensando di portele adattare a nostro piacimento, e invece oggi le uniche persone maleducate, intolleranti e insensibili sono state quelle che si ritengono cittadini modello.
Vorrei dirle che mai cambierei il cervello violato di mia madre con il suo. Riesco solo a scansarla e a dirle che è giusto che chi ha le gambe in buono stato abbia di conseguenza la facoltà di decidere chi merita o no il mercato di Pasquetta. Gioia trova ciò che stava cercando, compriamo e decidiamo di tornare verso l’auto, naturalmente chiusa su da un’altra che mi rende impossibile aprire il portellone per far scendere la pedana. Quindi, mio malgrado, lascio Gioia e mia madre all’inizio del parcheggio e, quando le raggiungo per farle finalmente salire, le trovo sorridenti e abbracciate. Penso che oggi, in questo lunedì dell’angelo, io gli angeli li ho incontrati.
Sorrido nello specchietto a mia madre e un pensiero carico di gratitudine va a quelle donne arabe e africane e al ragazzo indiano che ci hanno fatto sentire parte di questa mattina al mercato, piena in questa distesa colorata di tutto.
Mando un bacio allo specchietto retrovisore, che lo consegna nello stesso istante a mia madre. Accarezzo la mano di mia figlia mentre canticchio la canzone che sta passando in radio, felice di aver condiviso con loro anche questo.