Rubrica/Cono Sud - a cura di Gabriele Colleoni


Cile: la lezione dei 33 minatori di San José

Una volta tanto, il lieto fine c’è stato: i 33 minatori, intrappolati il 5 agosto a quasi 700 metri di profondità da un crollo nella miniera di San José nel deserto di Atacama in Cile, sono stati tutti salvati dopo 70 giorni, dapprima di angoscia sulla loro sorte, e poi di febbrile corsa contro il tempo, durata quasi due mesi. Così nella notte del 14 ottobre, il presidente del Cile, Sebastian Piñera, ha potuto annunciare con orgoglio ai propri concittadini ed al mondo intero, che in diretta tv avevano assistito minuto minuto all’odissea del «rescate», la conclusione della più gigantesca operazione mai messa in atto in una miniera per salvare vite umane di lavoratori. Ha anche simbolicamente seppellito l’incubo ponendo un pesante coperchio di metallo sull’imboccatura del pozzo scavato in 33 giorni, attraverso il quale i minatori sono stati riportati in superficie.
L’operazione, i cui costi sono stati stimati in una ventina di milioni di dollari, ha trasformato in eroi nazionali «los 33», come sono stati subito ribattezzati all’indomani del 22 agosto quando per la prima volta si ebbe la certezza della loro sopravvivenza perché erano riusciti a far salire in superficie grazie ad una sonda che li aveva raggiunti, il fatidico messaggio: «Estamos bién en el refugio, los 33». Divenuta nel corso degli oltre due mesi di durata, un evento mediatico senza precedenti, la vicenda dei minatori, a pochi mesi di distanza dal terremoto che in febbraio aveva sconvolto Concepciòn e le regioni costiere cilene, ha concentrato come non mai sul Paese e sulla sua capacità di far fronte ad un’emergenza così particolare, i riflettori dell’opinione pubblica mondiale.
La riuscita dell’operazione, facilitata dalla tecnologia cilena nel settore minerario già particolarmente sviluppata e dal contributo della Nasa alla costruzione della capsula Phoenix con cui i minatori sono stati riportati alla luce, è stata certamente uno spot molto importante per Piñera, primo presidente di destra dopo l’uscita di scena del generale Pinochet e dopo un ventennio di governi di centrosinistra. Un Piñera che ha visitato più volte l’area mineraria ed ha assistito a tutta la fase finale del salvataggio, vedendo crescere i sondaggi di gradimento e di consenso. Ma un messaggio di fortissimo impatto emotivo e politico al tempo stesso, è stato lanciato soprattutto dalla compattezza e dalla dignità con cui i 33 minatori hanno vissuto la forzata prigionia comune sotto terra: sospesi tra disperazione e speranza, tra vita e morte, hanno messo in campo -a 700 metri sotto terra- un solido orgoglio di classe (in Cile i minatori hanno sempre costituito una delle punte di diamante del movimento sindacale) ed un rapporto di solidarietà umana così forte tra loro che, oltre ad essere riemerso con loro dalle viscere della miniera, ha contagiato nei lunghi giorni dell’attesa tutto il Cile in una mobilitazione civica senza precedenti, trasformatasi infine in un’unica grande festa nazionale nel momento liberatorio del felice esito del dramma vissuto.
I festeggiamenti e gli onori che in Cile e in moltissime parti del mondo sono stati riservati ai «superstiti» di una tragedia temuta e sfiorata, non hanno tuttavia cancellato la consapevolezza della necessità di garantire una maggiore sicurezza ai circa 800 mila addetti al settore minerario che garantisce circa un sesto del Prodotto interno lordo (al 90 per cento nell’estrazione ed esportazione di rame). I minatori scampati hanno rivelato che i ripetuti allarmi da loro lanciati circa segnali di possibili crolli, non erano stati raccolti dai manager della miniera. E lo stesso presidente ha riconosciuto che i proprietari di San José avevano una responsabilità enorme per non aver rispettato le norme minerarie cilene (tra cui quella di una seconda uscita di emergenza dalle gallerie). Per questo Piñera ha annunciato che si impegnerà a ratificare una nuova convenzione sulla sicurezza delle miniere dell’Organizzazione Mondiale del lavoro, anche se comporterà costi aggiuntivi per le aziende. Un annuncio solenne, il suo, sottolineato dalle parole usate nella circostanza: «Lavoreremo per migliorare le nostre regole per il lavoro con lo stesso impegno e la stessa fede con cui abbiamo lavorato per liberare i nostri minatori: quando si salvano vite umane si investe, non c’è costo. Al contrario, se avremo una vera cultura della protezione della vita, la nostra industria mineraria sarà più forte». Uno dei punti decisivi sarà la possibilità effettiva dei lavoratori del settore, attraverso dei loro rappresentanti, di partecipare e di dare il proprio apporto alla messa a punto delle nuove strategie di sicurezza nei pozzi.

Argentina. L’improvvisa morte dell’ex presidente Kirchner
Un attacco di cuore a 60 anni ha stroncato, il 27 ottobre, l’ex presidente argentino Nestor Kirchner, marito dell’attuale leader della Casa Rosada, Cristina Fernandez, prima donna ad occupare la massima carica istituzionale dell’Argentina, se si esclude la breve esperienza di Isabel Perón succeduta al marito e poi estromessa dal golpe del 24 marzo 1976. Considerato «l’uomo forte» del Paese e del nuovo peronismo, l’ex governatore dello stato patagonico di Santa Cruz con la sua presidenza aveva rimesso in moto l’Argentina e la sua economia dopo il crollo all’inizio del decennio appena trascorso, chiudendo tra l’altro, con il suo governo, una efficace (per l’Argentina) rinegoziazione del debito pubblico con i creditori stranieri. Sul piano politico aveva riaperto i processi contro gli ufficiali macchiatisi di crimini contro i diritti umani e la persona, durante l’ultima dittatura militare. Il che gli aveva garantito, tra l’altro, l’appoggio delle Madri di Plaza de Mayo. Gli anni trascorsi alla Casa Rosada ne fecero anche il dominus del movimento giustizialista che si ispira a Perón, così che non volendo ricandidarsi subito, contribuì in maniera decisiva all’elezione alla presidenza della Repubblica della moglie avvocato e senatrice. Rimasto alla guida del peronista Frente para la Victoria, meditava una possibile ricandidatura nel 2011, anche se il sistema di potere dei Kirchner da tempo era nel mirino delle opposizioni e di potenti media. Il conflitto aperto con i terratenientes e i produttori agricoli sulla tassazione delle esportazioni, nelle ultime elezioni parlamentari del 2009 era costato caro alla coppia Kirchner, costretta a subire una cocente sconfitta politica in termini di voti e di seggi. Tuttavia è stato imponente e commosso l’omaggio riservato a Kirchner dopo la morte con oltre 100 mila argentini sfilati davanti alla sua bara. Per l’Argentina si prospetta ora una delicata fase di assestamento politico con molte incognite dovute al patto di ferro che saldava la coppia presidenziale. Per ora Cristina Fernandez, dopo l’unanime solidarietà ricevuta a livello internazionale al momento della morte del marito, che ricopriva la carica di segretario dell’Unasur, l’organismo che riunisce 12 Paesi sudamericani, sembra ora più determinata che mai a tentare la rielezione alla Casa Rosada.

Dilma Roussef, una nuova collega presidente in Brasile
Tra i primi politici ad accorrere a Buenos Aires per portare la propria solidarietà a Cristina Fernandez, sono stati il leader del Brasile Lula e quella che tre giorni dopo sarebbe diventata la nuova «presidenta» del vicino Paese e alleato, Dilma Roussef, già ministro della Casa di governo nella compagine dell’ex sindacalista metalmeccanico. Con il 56 per cento dei voti (oltre 55 milioni di voti) l’ex guerrigliera, oggi 62enne, ha sconfitto nel ballottaggio il candidato del centrodestra, il socialdemocratico José Serra, diventando la prima donna presidente del Brasile ed assicurando al PT la successione a palazzo di Planalto di Brasilia nel prossimo gennaio quando Lula lascerà la carica. Ma Dilma Roussef, la cui famiglia è di origini bulgare, promette una sostanziale continuità con la presidenza dell’ex operaio: nel suo primo discorso dopo la vittoria, ha infatti affermato che i suoi obiettivi sono quelli «sradicare la miseria» e, vista la dimostrazione dei progressi democratici compiuti dal Paese, di «onorare la fiducia ricevuta dalle donne, costruendo una società con eguali opportunità a tutti», perché questo «è un principio chiave della democrazia».

Legalizzati i matrimoni omosessuali
Al termine di un acceso dibattito in seno all’opinione pubblica e un duro confronto in Parlamento (con numerosi casi di voto di coscienza), dal 15 luglio grazie al via libera finale dei senatori (33 contro 27), la cattolicissima Argentina è diventato il primo Paese del Sudamerica (e il decimo del mondo) ad aver legalizzato i matrimoni tra persone dello stesso sesso, le quali, una volta pronunciato il sì, potranno anche adottare figli. Sarebbero già oltre 200 le coppie gay che hanno voluto beneficiare delle nuove norme, il cui iter è stato caratterizzato da un inedito, durissimo scontro tra il governo e la Chiesa cattolica schierata contro la nuova normativa. Tra i vescovi è prevalsa la linea intransigente e conservatrice dell’arcivescovo di La Plata, Héctor Aguer, che tra l’altro accusa le Nazioni Unite di «neocolonialismo secolarista». Ad organizzare le marce anti-governative è arrivato dalla Spagna anche un esponente di spicco dell’Opus Dei, Benigno Blanco. E così, mentre l’approvazione della legge sui matrimomi gay in Argentina rischia di creare un effetto domino mettendola all’ordine del giorno anche in altri Paesi del Sudamerica, a Buenos Aires, già considerata una capitale del turismo «gay friendly», i cattolici si preparano a mobilitarsi per un referendum abrogativo. Il governo peronista ha peraltro cavalcato anche in prospettiva elettorale futura, un cambiamento dell’opinione pubblica rilevato dai sondaggi secondo i quali i matrimoni tra persone dello stesso sesso sono considerati in modo positivo dal 60 per cento degli argentini.