Rubrica/Nonviolenza attiva - a cura di Francesco Comina
Raimon Panikkar un sacerdote libero
Raimon Panikkar non era una linea, era un cerchio. E forse non era nemmeno ma è perché continua ad esistere in quel flusso di energia che si sprigiona direttamente dalla sorgente, come amava chiamare l’orizzonte ultimo che ci attende. Non amava molto parlare né di futuro né di passato. Pensava al presente come ad un tempo che riassorbe in sé il passato e il futuro. Aveva coniato anche un termine: tempiternità. Essere, diceva, significa stare: “Oltre le alienazioni, oltre le infiltrazioni tecnologiche che cercano in tutti i modi di distrarci dalle cose ultime, dalle cose profonde”. Vivere la nudità ontologica era per lui la forma più vera di vivere il vangelo. Un giorno lo sentii commentare la vita di san Francesco e santa Chiara in questo modo: “Erano ignudi, non si aggrappavano a nulla. E proprio per questo erano i volti di Cristo”.
Mi verrebbe la tentazione di definirlo un “profeta”. Lui mi ammonirebbe: “Io sto nel presente, non anticipo il futuro”. Eppure mi pare sempre più chiaro che Panikkar ci superi. In tanti ambiti. La sua vita è stata il frutto di infinite contaminazioni. Figlio di madre catalana cattolica padre indiano induista, il suo sangue era una miscela di culture e religioni. La sua formazione correva da un luogo all’altro dell’Europa, dell’Asia, del Medioriente, dell’Africa, dell’America Latina, del nord America dove ha chiuso la sua attività accademica fra le università di Harvard e Santa Barbara. Dicono che conoscesse una ventina di lingue. Eppure, nonostante questa libertà d’apprendimento, egli si concedeva anche la libertà di conoscere le culture dal di dentro, dagli interstizi della vita feriale. L’altro per lui non era un oggetto di investigazione teorica ma un universo da scoprire. “Per conoscere un’altra religione -diceva- ti devi convertire”. E lo diceva non con un significato metaforico. Lo diceva concretamente: “Sono nato cristiano, mi sono scoperto indù e torno buddhista, senza avere mai perso di vista la mia matrice cristiana”. Convertirsi all’islam non vuol dire tollerare l’islam.
Per Panikkar convertirsi all’islam significa vivere quella religione dall’interno, scoprirne i tesori, fare pratica, studiare i testi, collocarsi su quell’orizzonte mistico e simbolico. E così per l’induismo, per il buddhismo, così per le religioni animistiche dell’Africa. Diceva spesso che il dogma non è la luna. È il dito che indica la luna, ma se uno si ferma a guardare il dito non arriverà mai ad ammirare la luna. Panikkar evitava le polemiche frontali con le autorità ecclesiastiche. È stato il sacerdote più libero che abbia mai conosciuto. Ha potuto dire e fare cose che ad altri sono costate carissime. Non capiva il celibato del prete, ma non ha mai fatto una campagna contro. Si è semplicemente sposato con il benestare delle autorità, perché quel passaggio avrebbe rafforzato il suo sentimento religioso, il suo cuore cristiano. Fare l’esperienza di una sua messa era un evento straordinario. Vi entrava tutta la creazione. Sembrava di tornare alle origini quando la comunità era la chiesa e la chiesa era la comunità. E il ministro del culto era nel mezzo, a condividere il mistero del Dio fatto uomo, carne e spirito, logos e materia.
Le riflessioni “teologiche” avevano l’audacia della pratica religiosa vissuta, non assunta unicamente per via razionale. La Trinità diventava per lui il grande simbolo della terra ferita, dell’uomo annichilito, del Dio lottizzato. Perché l’esito di quell’incrocio di persone era per lui la forma esprimere il Tutto, ossia la relazione fra le tre dimensioni del reale, quella umana, quella cosmica, quella divina. Isolare Dio significa tagliare quel filo che lo lega all’Uomo e uccidere l’Uomo significa ferire Dio, distruggere la Terra vuol dire deturpare il divino. Perché Dio è in ogni cosa. Egli si fa conoscere nella suo essere plurale. Questa relazione fra le tre dimensioni costitutive del reale, Panikkar l’ha definita con un neologismo curioso: cosmoteandrismo. In uno dei suoi libri più importanti “Il Cristo sconosciuto dell’induismo”, Panikkar ha ipotizzato un parallelismo curioso fra Cristo e Isvara, ponti fra l’assoluto e il relativo: “Il ruolo di Isvara nel Vedanta corrisponde come funzione omeomorfica al ruolo di Cristo nel pensiero cristiano”. Panikkar andava oltre il monismo. Ma non sopportava nemmeno il multiculturalismo. Diceva che la realtà è plurale e che la verità tout court non esiste.
La verità esiste in quanto radicata in un universo particolare: “Il monoculturalismo -diceva- ossia la credenza che una cultura abbia, in linea di massima e in linea di principio, la soluzione ai problemi del mondo, è molto pericoloso. Credo che il problema che dovremmo porci sia diametralmente opposto: come renderci conto che nessuna cultura è isolata e che nessuna religione può cavarsela da sola?” Nessuno come Panikkar è riuscito a creare un pensiero organico e originale sul dialogo fra le religioni. La sua lettura era del tutto svincolata da visioni ideologiche o settarie. Qualcuno lo ha criticato di scivolare nel sincretismo o nel panteismo. In realtà egli difendeva il diritto delle religioni a poter esprimere le proprie verità. Quando vedeva la Chiesa chiudersi a riccio per paura di un incontro con le altre tradizioni religiose, sbottava: “Chi ha paura di perdere la fede la perderà”.
Panikkar ha vissuto la sua libertà nella fedeltà. Quando morì padre Ernesto Balducci scrisse una lettera commovente. Non gli risparmiava alcune critiche rispetto alla sua teoria dell’uomo planetario che egli considerava “un’astrazione”: “L’uomo -diceva Panikkar- si da solo in una cultura particolare”. Al termine della lettera saluta l’amico con queste parole: “Il cuore piange perché vive”. Io che l’ho conosciuto e che l’ho avuto come maestro vorrei dire lo stesso, ora che se n’è tornato alla sorgente: “Il cuore piange perché vive”.