Waldemar Boff - Albero della vita

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Prefazione


Che bello leggere Waldemar! Che bello accogliere il mondo contemporaneo nelle sue parole vere come quelle che soltanto i profeti sanno dire. I suoi racconti, la sua esperienza sono una scossa continua che fa tremare la terra, che ci richiama a responsabilità. Ci arriva come un’onda invisibile e potente che parte da lontano, dal peso dell’angoscia delle persone. E sto usando “volutamente” la parola persone e non popolo, perché è in questi termini che penso a chi è coinvolto nel dramma che Waldemar descrive. Perché popolo è un’espressione generica e un po lontana. E invece, leggendo, le sentiamo vicinissime queste persone. Persone. Che immaginiamo una per una, dando loro i volti che i suoi racconti ci hanno descritto. Vasti, una bella donna nera di mezza età, che accoglie trenta bambini nel cortile della sua casa nella Baixada Fluminense; la signora Maria, sempre aggressiva, non saluta mai e non sorride mai. Parlando con sua zia, Waldemar ha scoperto che a dodici anni era stata venduta a un ragazzo che saliva nel quartiere con un carretto, comprando ferro vecchio. Ai salti di gioia di Edicleusa, quando Odette, l’assistente sociale della comunità, le ha comunicato che era riuscita dopo tante peripezie a ricostruire la sua storia e le ha consegnato il certificato di nascita. Finalmente! Ufficialmente riconosciuta come una persona, una cittadina. Persone di cui percepiscono il dolore, la precarietà, la paura. E li condividono. Soffrendo per loro, avendo paura con loro. Persone verso le quali provano una compassione profonde. E questo sentimento ci rende umani come non mai. Ci rende uomini tra gli uomini, dando valore alle nostre vite, dignità al nostro continuare di ogni giorno.
Tutti abbiamo bisogno di modelli e riferimenti che ci aiutino a vivere, a vivere veramente la spiritualità. Tutti abbiamo bisogno di pensieri semplici e profondi che possiamo accogliere nella nostra interiorità e che ci aiutino a dare una risposta semplice agli eventi della vita e della quotidianità. Capisci che l’amore opera meraviglie insospettate, è audace l’amore, non ha confini o gabbie in cui costringerlo, si fa gioco dei nostri schemi e calcoli. Riesce a riempire il vuoto. Misteriosamente, delicatamente, lasciando respirare il dolore, dandogli aria e fiducia. Capisci che l’amore oltre alle parole ha bisogno di gesti. Piccole attenzioni quotidiane che trasformano la vita di tanti “grandi” considerati “piccoli” perché poveri. Capisci che per secoli abbiamo interpretato come obbligo l’essere solidali e caritatevoli. Mentre il suo invito è l’incontro con l’altro, l’investire la vita per imparare ad amare l’altro, gli altri, la natura, tutti i viventi, perché la nostra vita, lo vogliamo riconoscere o no, si nutre attraverso la tenerezza, la dolcezza, l’amicizia. Se tutti noi volessimo, anche soltanto per un istante, “restare umani”, potremmo trasformare la nostra vita e quella dell’intera umanità.
Antonio Vermigli


Riflessioni provvisorie di un educatore popolare


Perché non scrivi qualcosa? -mi chiese all’improvviso Antonio Vermigli di Quarrata, il vulcanico e instancabile tessitore di relazioni tra l’Italia e il Brasile e direttore del Notiziario della Rete Radié Resch. Sì, penso che tu abbia ragione, lo farò- gli risposi, mentre attraversavo con la macchina la bella strada imperiale, immersa nella foresta atlantica. Dentro di me, pensai che era tempo di sedermi e di riorganizzare i pensieri e le esperienze, come faccio di solito dopo un lungo periodo di lavoro. Nei giorni successivi, buttai giù alcune idee su un pezzo di carta, che ora ho provato a sistemare dando un certo ordine.

Sostenere le iniziative dei poveri
I poveri conoscono già la soluzione dei loro problemi. Per noi, classe media istruita e professionale, è difficile sedere in mezzo a loro, ascoltarli, scambiare idee e dare credito alle loro soluzioni. Si pensa normalmente che quello che è buono per noi lo deve essere anche per loro. Ci comportiamo come se ci fosse un modello standard per valutare il benessere umano. Inconsciamente li riteniamo gente che appartiene ad una specie di terza classe intellettuale, con molto poco da dire sulla vita. In questo modo però il dialogo procede su basi squilibrate.
Quando lavoravo all’assessorato sociale del municipio di Petrópolis, una bella donna nera di mezza età, Vasti, venne da me, in un pomeriggio nebbioso. Aveva difficoltà a seguire i trenta bambini che accoglieva nel cortile della sua casa nella Baixada di Rio, all’ombra rinfrescante di un mango centenario. Venne a chiedermi aiuto. Le dissi solo: Vasti, devi solo andare per la tua strada. Io ti darò il supporto necessario, educativo e materiale. E così cominciò il nostro rapporto. Dopo sette anni, Vasti è co-responsabile di una giardino d’infanzia di oltre 70 bambini, guida una casa famiglia per bambini di strada, è senza dubbio un autorevole riferimento per la comunità, nonché uno degli esponenti di maggior importanza della Commissione per la fame di Rio. Questo non significa che lei sia l’esempio di un cittadino pienamente consapevole. Vasti è piuttosto la rappresentante di un paese che storicamente è stato brutalizzato dalla schiavitù e che ha imparato, con la sopportazione e la dissimulazione, a sopravvivere mantenendo la propria cultura originaria.

Tener conto seriamente della cultura popolare
Molte volte non ci rendiamo conto della difficile situazione in cui viene alimentata e sostenuta la cultura dei poveri. Loro hanno un modo particolare di affrontare le situazioni conflittuali, dalle questioni familiari alle narcomafie, dai politici e alle personalità religiose. Mi ricordo che una volta suggerii ad un leader comunitario di chiamare la polizia per un problema di droga. Lui mi disse: Molto bene, amico mio, però tu da qui tornerai nel tranquillo quartiere di casa tua, mentre noi dobbiamo restare qui ad affrontare sia i delinquenti che la polizia! Mi vergognai del suggerimento dato.
Presi dall’ardore etico e dallo zelo civico, non accettiamo il fatto che il povero scambi il voto per ottenere benefici personali, come la cesta basica, qualche sacco di cemento, un’iscrizione a scuola o la visita dal medico. Il fatto è che noi non dobbiamo ascoltare il pianto del bambino causato dalla fame, non dobbiamo spostare i mobili della casa quando piove, né dobbiamo scrutare il cielo nuvoloso per vedere se le piogge torrenziali dell’estate travolgeranno di nuovo le nostre precarie abitazioni.
La religione è una questione molto seria per i poveri. Dio è sempre sulle loro labbra e molto spesso anche nel loro cuore. Guardando alla loro condizione di vita, arriviamo alla conclusione che essi vivono nella grazia di Dio. Le loro esistenze sono un continuo miracolo della vita. Ma esistono anche espressioni religiose intolleranti. Per esempio, gli evangelici hanno diverse restrizioni nei confronti delle tradizioni afro-brasiliane e molti cattolici di classe medio-alta sono diffidenti verso le pratiche e le idee comunitarie di base. Noi come educatori teniamo conto della religione ma non delle confessioni, provando a portarla al livello dei diritti umani e civili e coinvolgendo i credenti nelle varie iniziative pratiche.
Qualche anno fa, nelle comunità di Vila Esperança, Getulio Cabral e Vila Angélica, nella Baixada di Rio, ci furono diversi omicidi in poche settimane. Si trattava di una guerra di droga tra i diversi gruppi e la polizia. Molti adolescenti furono uccisi ed i loro corpi furono custoditi nei nostri giardini d’infanzia, prima della sepoltura. In quel periodo, nel Centro per l’infanzia e l’adolescenza Casa das Rosas, tenemmo il nostro incontro mensile con tutti gli educatori e gli agenti popolari. C’erano circa 100 persone. Qualche giorno prima, chiedemmo a tutti i partecipanti di venire vestiti di bianco perché avremmo tenuto una meditazione comunitaria aperta per contrastare il clima di violenza. La gente venne in silenzio e per più di un’ora restammo in meditazione, ascoltando e cantando solamente questo piccolo mantra: Mira solo la luz y verás solo luz! – guarda solo la luce e vedrai solo la luce. Siamo certi che abbiamo offerto un piccolo contributo per ispirare la pacificazione delle comunità in lotta.

Risvegliare le capacità latenti dello spirito umano
Molte volte discuto con i miei colleghi su come trattare con la gente, specialmente nei casi di insuccesso oppure a proposito della loro capacita di ottenere ciò di cui di hanno bisogno. Alcuni educatori sono più realistici e tendono ad affrontare le questioni con cautela e prudenza, basandosi sulle esperienze precedenti. Io credo fortemente nella forza dello spirito che può rinnovare tutte le cose e determinare nuovi ed inaspettati atteggiamenti. A dispetto delle condizioni storiche, dei tanti detriti che sotterrano la cultura dei poveri, di tutti i pregiudizi ed usi popolari, dell’innegabile peso dei fatti, la gente e le situazioni domani possono essere differenti da come sono oggi. Per risvegliare queste potenzialità interne noi cerchiamo di provocare, di informare, di sensibilizzare le persone ad andare oltre la propria condizione, ad aspirare ad un più alto modello di comportamento, a guardare sempre verso la luce a dispetto del buio presente, verso il bene a dispetto del male, verso la verità a dispetto della menzogna, verso la realtà a dispetto della seduzione delle apparenze. In fondo, cos’altro è l’educazione se non questo? Chi siamo noi per mettere limiti all’azione vitale? Non crediamo forse che lo Spirito Divino permea tutta la realtà spingendola a manifestarsi e a fiorire? Per noi è un atteggiamento miope quello di considerare i miserabili come inutili rifiuti sociali da trattare come malati terminali, meritevoli soltanto della nostra compassione. Bloccare l’espressione delle potenzialità umane, che sfidano continuamente le condizioni materiali di vita, è per noi un crimine contro l’umanità. Che perdita terribile quella di bloccare l’emersione di un così grande quantitativo di talenti e di creatività: significa non permettere l’arricchimento culturale dell’umanità e bloccare la spinta verso la spiritualizzazione della realtà.
Quando camminiamo per le nostre comunità, quello che spesso troviamo è la speranza. La speranza contraddice la dura realtà e punta ad una realtà che ancora non esiste. Domani andrà meglio! Con la grazia di Dio, le cose cambieranno! Spero di farcela! La realtà per i poveri è immutabile solo in superficie. Il loro spirito li invita ad andare oltre le apparenze, verso un altro mondo possibile. E se questa civiltà dovesse scomparire, la vita ricomincerà di nuovo, tessendosi pazientemente per generare nuove e più complesse forme di vita, come è già accaduto tante volte nella lunga storia del mondo.
Nel 2001 abbiamo lanciato il progetto Suruí 2050. è lo sforzo di implementare i principi dell’Agenda 21 nel bacino di uno dei 35 fiumi che sfociano nella grande baia di Rio. Quando raccontiamo la nostra visione, gli occhi di qualcuno brillano mentre altri rimangono scettici. Noi crediamo che la realtà possieda internamente lo slancio necessario per andare in avanti e verso l’alto; al tempo stesso, l’emergere di questo slancio dipende dalla nostra capacità di propiziarlo.
Nei progetti di ampio respiro, sia ambientali che sociali, abbiamo imparato a ricercare l’efficacia piuttosto che l’efficienza. Questa vuole ottenere risultati a breve termine; l’efficacia invece guarda alle trasformazioni di lungo termine, le quali richiedono lentezza e comprendono anche l’arretramento, l’arresto e talvolta la morte.

Ridimensionare le proprie aspettative
Non è sempre facile stare dentro i movimenti popolari. Non è solo un fatto di spostamenti fisici. È anche una prova continua per le nostre convinzioni. Sei continuamente chiamato ad imparare e a rivedere le tue idee di partenza. Come i piedi calpestano nuovi campi, la mente comincia ad avere nuovi pensieri e a riformare quelli vecchi. Queste dinamiche inarrestabili mettono a dura prova sia il corpo che la mente e il movimento tende al riposo. Forse questo spiega perché così tanti movimenti popolari si trasformano in organizzazioni tiepide e burocratiche. È così comodo avere una tabella da seguire, un budget definito, un programma di lavoro ed obiettivi chiari da raggiungere. Mentre è così impegnativo per un educatore decidere di mettersi interamente a disposizione della realtà quotidiana: rispondere ad ogni questione riguardante la vita del popolo conduce in una direzione che non è sempre chiara.
Tante volte guardiamo ai risultati immediati e tangibili, sia quantitativi che qualitativi. Questo è quello che richiedono le agenzie di sviluppo in cambio delle loro sovvenzioni di due o tre anni. Ed in parte hanno ragione. Ma quando sei coinvolto in cambiamenti profondi e difficili, molti risultati sono invisibili e si manifesteranno solo più tardi, tante volte addirittura nella generazione successiva. Mi ricordo quando cominciammo il lavoro in Vila Leopoldina, un’area suburbana di Petrópolis, quindici anni fa. Fu solamente dopo cinque anni che le madri si convinsero che mandare i loro bimbi a scuola avrebbe favorito un miglioramento della loro vita. Oggi praticamente tutti i bambini vanno alla vicina scuola municipale. La gente che portiamo da fuori a visitare la comunità non vede i risultati più importanti. Continuano ad esserci le capanne dei miserabili, i bambini nudi che corrono dietro alla nostra macchina quando arriviamo, gli anziani che chiedono medicine e i giovani che chiedono lavoro. Ma pochi visitatori sanno che la comunità ha eletto la propria commissione per discutere il bilancio partecipativo del municipio, che la prostituzione infantile è stata abolita, che la violenza quotidiana ed il consumo di droga sono stati ridotti drasticamente e, soprattutto, che la gente adesso è più umana ed amichevole di un tempo.
Sempre più sentiamo parlare della “autonomia” dei poveri, del cosiddetto “empowerment”, della “partecipazione”. Ma a noi sembra che si dimentichi che questi obiettivi ideali devono sottostare a lunghissime mediazioni prima di essere raggiunti. I poveri con cui trattiamo soffrono di una specie di orfanità collettiva, storica e sociale. Sradicati dalle loro terre tanto tempo fa, furono privati della memoria dei loro padri fondatori, i quali furono condannati alla morte culturale. Talvolta constatiamo che, dal punto di vista pedagogico, sarebbe opportuno guidarli in una nuova esperienza placentare collettiva. Sembrano infatti aver bisogno di un padre e di una madre collettivi in cui confidare. Se per i nostri ragazzi occorrono 20 e più anni per raggiungere l’indipendenza personale, quanto occorre per una intera comunità per avere la sua autonomia? Forse siamo troppo ansiosi di vedere risultati immediati e visibili; forse abbiamo bisogno di quel silenzio paziente, adatto ai processi di crescita organica. In fondo l’educazione popolare ed il lavoro sociale sono del tutto simili alla semina. Nell’oscurità della notte spargiamo semi di gioia e di fiducia, sicuri che altri dopo di noi verranno in futuro a raccoglierne i frutti maturi, alla luce del giorno e per il beneficio di tutti.

Essere gentili e riconoscenti
Uno dei modi più sicuri di camminare in mezzo ai poveri è quello di essere sempre dei servitori gentili, disarmati, riconoscenti e pacifici. È questo amorevole spirito di servizio che ci preserva dalla violenza e dal pregiudizio. Mi ricordo che una volta chiamai un operaio specializzato per asfaltare le strade fangose della comunità di Vila Ipanema, a Petrópolis. Alcuni vennero da me dicendomi: Non parlare con lui. È un bandito feroce. Ha già ammazzato più di 20 persone… Quando parlammo per definire gli ultimi dettagli del lavoro, lui stava davanti alla mia scrivania e non riuscii a vedere niente di quella ferocia di cui mi avevano parlato. Fu molto corretto nel suo lavoro, che completò con interesse e competenza. Successivamente, seppi che era stato coinvolto in un conflitto comunitario; lo chiamai e con molta franchezza gli dissi che la situazione non doveva essere risolta con le pistole e la violenza. Lui mi ascoltò umilmente e seguì le nostre indicazioni. Le persone tendono ad essere gentili, se tu sei gentile con loro; e tendono ad essere leali, se tu sei leale con loro.
Gentilezza e gratitudine non sono sufficienti, comunque. Abbiamo bisogno di autentica giustizia non solo nelle relazioni umane ma anche nei rapporti internazionali. Apparentemente, alcuni gruppi privati e qualche agenzia di sviluppo internazionale elargiscono i propri fondi con un certo spirito di carità, benevolenza e qualche volta di superiorità. Noi lodiamo e siamo sempre grati verso chiunque desideri alleviare le sofferenze umane, indipendentemente dalle intenzioni dei donatori. Tuttavia molto spesso ci torna alla mente una vecchia poesia brasiliana:


Quem trabalha e mata a fome          Chi lavora e lenisce la fame
Não come o pão de ninguém            Non mangia il pane di nessuno
Mas quem ganha mais do que come  Ma chi guadagna più di quel che mangia
Sempre come o pão de alguém        Sempre mangia il pane di qualcuno

Se queste parole sono vere, dovremmo chiederci: quanto può essere giusta la ricchezza accumulata dai cosiddetti paesi sviluppati che storicamente hanno sfruttato i paesi poveri? Quanto può essere degno di rispetto il benessere materiale di cui godono? Ed ancora: in un visione storica più ampia, anche alla luce di un concetto di unica famiglia umana, le donazioni non dovrebbero essere considerate come “restituzioni”? E la carità individuale non dovrebbe essere chiamata giustizia sociale? Ecco, forse l’equità e la giustizia dovrebbero camminare, mano nella mano, insieme alla benevolenza ed alla gratitudine.

Tieni sempre gli abiti puliti
Quali sono i vestiti appropriati di un educatore popolare? Pensandoci su, dopo almeno 20 anni di lavoro sociale, provo a fare una lista provvisoria:

Semplicità volontaria – È molto importante provare a vivere al livello dei bisogni, perché molte persone con cui trattiamo, trovandosi al di sotto della soglia della povertà, combattono per sopravvivere.

Compagnia allegra – Quando andiamo in giro, è meglio non andare da soli. Dobbiamo avere una compagnia, non solo per motivi di sicurezza, ma anche per dialogare e condividere il pane.

Purezza fedele – Sono tanti gli interessi legati al lavoro sociale. Essere sinceri e altruisti è una sfida quotidiana, con tutte le tentazioni che ci sono, come l’autogratificazione ed il pubblico di riconoscimento.

Nuda debolezza – Quando camminiamo in mezzo ai poveri, dobbiamo condividere la loro debolezza materiale, politica e spirituale. I miserabili sono degli “zero economici”, sono invisibili nei bilanci pubblici, sono oggetto di derisione nel mondo dello spettacolo e, in molte agende missionarie, la loro liberazione integrale non è la massima priorità.

Coerenza obbediente – L’educatore popolare deve essere zelante nell’ascolto delle voci esterne e principalmente di quelle interne. Ma alla fine, egli deve rispondere alla propria coscienza. Sapendo che questo può condurlo molto spesso alla segregazione, al sospetto ed alla solitudine.

Auto-svuotamento – Siamo solo servi utili. Facciamo appena quello che ci è richiesto di fare. Niente del bene che abbiamo fatto o detto ci appartiene; è solo lo Spirito che ci ha ispirato e ci ha rafforzato nel nostro dire e nel nostra fare.

Contropotere silenzioso – Come affrontare l’onnipotenza dell’impero? Come contrastare la schiacciante potenza dei media? Da dove trarre la forza per la nostra fede e la nostra azione? Davvero sarebbe di grande aiuto se riuscissimo a conservare nella nostra mente e nel nostro cuore la convinzione che c’è un solo atteggiamento fondamentale: la tenerezza per ogni essere vivente, specialmente per i più deboli; c’è un una sola forza: la forza della verità; c’è una sola certezza: lavare i piedi dei poveri; c’è un solo potere politico: la volontà di rinunciare ad ogni potere per realizzare la comunione; c’è una sola strada: quella dell’amore universale.


Indice

Prefazione  
Riflessioni provvisorie di un educatore popolare
Il canto alla delicatezza 
La marcia del bene comune 
La diplomazia popolare
La spiritualità nella politica
Confessioni di un politico
Agonia di una politica
La politica delle cose: una strategia di riscatto per “gli ultimi tra gli ultimi” 
Annotazioni sparse per un poema pedagogico
Verranno a bere le nostre acque, essi e i loro greggi
Non posso stare zitto
Sostenibilità
Ci sarà sostenibilità solo  se tutti cambieremo insieme 
Perché Agua Doce
Il villaggio di Sururuy
Cambiamenti climatici: l’ora della resa dei conti?
Nostalgia del “Sertão do Carangola” 
Il bisogno di un Vangelo Nudo
Il frutto dorato della Pace
Quali di questi ti sembra essere l’ultimo?
Lettera di Natale
Agua Doce - Serviços populares
Scheda adesione progetto