Le scarpe made in Kenya
1.1 Informazioni generali |
1.2 Soggetto titolare
Il soggetto titolare del progetto è la Rete Radiè Resch, che opera – in questo caso – per conto della missione comboniana nello slum di Korogocho, Nairobi, Kenya.
1.3 Soggetto attuatore
Il soggetto attuatore del progetto e’ la missione comboniana di Korogocho, Nairobi, Kenya.
1.4 Responsabile del Progetto
Responsabile del progetto è uno dei missionari: Gino Filippini, da 40 anni in Africa e da oltre dieci anni nello slum di Korogocho. Gino Filippini è l’anima di molte delle cooperative e dei gruppi creati in questi anni nello slum. Vive in una baracca di fango e lamiera, assieme ai più poveri fra i poveri e ciò, agli occhi degli altri slum dwellers, gli conferisce credibilità e rispetto fuori dal comune. |
1.6 Localizzazione dell’intervento |
1.7 Obiettivi del Progetto |
1.8 Risultati attesi (qualitativi e quantitativi) |
1.9 Principali attività previste/fasi di lavoro |
- Fase 1: sostegno alla produzione appena lanciata, con un’azione di accompagnamento incentrata sull’assistenza tecnica fornita da un esperto;
- Fase 2: studio del mercato e contatto con i principali canali di distribuzione del nuovo segmento (turismo internazionale);
- Fase 3: definizione delle collezioni (che dureranno diversi anni e che quindi costituirebbero un investimento da ammortizzare in un’ottica pluriennale) e acquisizione degli ordini;
- Fase 4: Produzione e consegna dei primi ordini.
1.10 Durata complessiva del progetto e principali fasi di lavoro |
1.11 Tipologia di utenza per il Progetto e stima della dimensione |
Progetto Jacaranda - Korogocho, Nairobi - aggiornamento del novembre 2007
Premessa
Il lavoro avviato a Korogocho, su stimolo di Antonio Vermigli della Rete Radiè Resch, sostenuto dalla Rete e dalla Fondazione Un raggio di luce, reso possibile dall’impegno e dalla presenza continua di Gino Filippini, è giunto ad un punto di svolta. La cooperativa – o meglio il self help group, regolarmente registrato e dotato di una posizione IVA che gli consente di operare come una azienda, pur mantenendo le caratteristiche di un gruppo e quindi di un’organizzazione che ha obiettivi sociali assieme a quelli economici – si è costituita (si veda in allegato il certificate di registrazione), ed ha utilizzato i fondi stanziati a suo tempo dalla fondazione Un raggio di luce per cominciare ad operare sul mercato locale e con alcuni clienti legati al mondo della cosiddetta moda etica. Questa nota riguarda gli sviluppi piu’ recenti ed è un aggironamento rispetto a quanto scritto in precedenza.
Cosa abbiamo fatto sinora
Il progetto originariamente prevedeva di costituire una cooperativa di produttori di calzature e piccola pelletteria a Korogocho, capace di operare sul mercato interno del Kenya. A Korogocho, v’erano infatti diversi micro-produttori di scarpe che operavano a livello informale (si vedano i precedenti rapporti). La cooperativa è stata costituita, la formazione eseguita e le prime attività di produzione sono state avviate. L’idea di fondo era quella di lavorare sul mercato locale. Molti alri progetti volti a sviluppare il mercato internazionale attaraverso i canali piu’ diversi (commercio equo, fiere missionarie, compratori di artigianato africano) sopravvivono con difficoltà e stentano a trovare una propria dimensione di mercato (e quindi una vera e propria sostenibilità). Dunque, decidemmo di operare per avvicinare le grandi catene di distribuzione che operano nel paese (Tuskys, Nakumatt, Enka Rasha) in modo da divenirne fornitori su alcune linee di prodotto (scarpe per la scuola, scarpe di sicurezza, sandali in pelle). Allo stesso tempo, pero’, abbiamo capito che potevamo operare anche sul mercato della cosiddetta ethical fashion. Abbiamo avuto infatti, grazie ad un programma delle Nazioni Unite, la possibilità di aprire un canale di comunicazione con questo segmento. Ethical fashion è un termine che indica una reltà nuova, quella legata all’acquisto di prodotti di lusso sulla base di motivazioni etiche (sviluppo, ambiente, diritti umani). In questa fascia di mercato cio’ che conta è mostrare chiaramente la storia dietro al progetto, o meglio ai produttori, in maniera tale da rendere chiaro il contributo fornito dal consumatore (di un paese ricco). Quindi, prodotti realizzati in Africa, in uno sluma con una storia “certificata” da un ente super partes come le Nazioni Unite, possono entrare in questo mercato. Certamente si trattava di una deviazione dal progetto originario, dato che si trattava di mercato internazionale (i paesi piu’ ricchi in particolare Inghilterra, Olanda, Germania, Francia) e non locale, ma v’era una giustificazione: operare per questo mercato significava acquisire la possibilità di ricevere prezzi adeguati, sviluppare formazione efficace e centrata sul prodotto, ma soprattutto presentarsi sul mercato locale con una nuova immagine. Gli operatori del segmento ethical fashion sono infatti disponibili ad investire nello sviluppo di capacità locali fornendo design ae elementi di sviluppo prodotto. Tali elementi, inseriti nell’ambito del generale processo di assietnza tecnica fornito alla cooperativa, grazie al contributo della Fondazione, sono divenuti dei fattori di sviluppo molto importanti, perché ci hanno consentito di condurre un’attività di formazione/produzione tutta basata sulle richieste del mercato e sul rapporto con un vero committente (che rifiutava le forniture in caso di non conformità o ritardi). Inoltre, tale rapporto ci ha messi in grado di sviluppare nuove linee di prodotto ed una nuova imagine per meglio introdurci sul mercato locale. Ne parliamo piu’ dettagliatamente nel paragrafo su cio’ che resta da fare. Qui vale la pena sottolineare come questo segmento dell’ethical fashion sia un veicolo per aprire le porte del mercato locale.
Le difficoltà incontrate
Lavorare nello sulum significa incontrare difficoltà d’ogni tipo. Vi sono state difficoltà d’ordine logistico ed organizzativo (installare i macchinari in maniera corretta, allacciare la linea elettrica trifase, installare il contatore e cosi’ via). Tanto per fornire un esempio, un bel giorno, nel pieno del lavoro ci siamo trovati senza elettricità: era successo che la cooperativa della porta accanto non aveva pagato la propria bolletta e la compagnia elettrica locale aveva tagliato l’elettricità a tutto l’edificio. Siamo andati a protestare, ma alla fine abbiamo dovuto trovare un accordo con i nostri vicini: abbiamo acquistato prodotti che dovevamo impiegare per la nostra produzione e, invece di pagare il conto dei prodotti, abbiamo pagato la bolletta dell’elettricità. Altre difficoltà sono arrivate dal gruppo stesso. La realtà dello slum è una realtà disagiata anche da un punto di vista umano e sociale. Costruire un gruppo, instaurare un meccanismo di fiducia reciproca e collaborazione, è difficile. Ancora oggi dobbiamo continuamente intervenire per appianare questioni e piccole controversie. In questo, l’aiuto di Gino Filippini è stato determinate. Senza di lui non avremmo fatto un bel niente. Il suo lavoro è il vero lavoro di sviluppo: sostiene il cambiamento della società, favorendo il cambiamento nei rapporti fra le persone.
Ciò che resta da fare
Adesso dobbiamo sviluppare il lavoro volto a consolidare il mercato interno attarverso il know how acquisito lavorando su quello della moda etica. Ancora una volta occorre precisare che il pane quotidiano viene dal mercato interno. Il mercato della moda etica è un veicolo di costruzione di capacità, come già detto, nonché di sviluppo di immagine. I grandi gruppi di distributzione che operano in Kenya, infatti, hanno una pessima opinione in materia di capacità e affidabilità dei produttori locali. Non solo, mai e poi mai penserebbero di avvicinarsi ad uno slum. Chi scrive ha avuto modo di notare piu’ volte lo stupore negli occhi di interlocutori locali, allorquando veniva proposta la collaborazione con una reltà nata in uno slum. Cio’ nonostante, produrre articoli moda per realtà internazionali sta cambiando questa immagine e puo’ contribuire ad aprire un canale di dialogo fra le grandi catene di distribuzione del Kenya e i produttori dello slum. In questo abbiamo ancora da lavorare. In particolare dobbiamo: approfondire i contatti avviati con tutte le realtà di distribuzione locale; sviluppare linee di prodotto in linea con la stagionalità del mercato e con i sgementi piu’ facilemente avvicinabili ; Sostenere il gruppo nel suo allargamento verso l’inclusione di nuovi elementi.
Nessun investimento in nuovi macchinari dovrebbe essere necessario. Qualora si rendesse necessario, si cercherà di ricorrere a forme di microcredito, dato che si tratta di investimenti che debbono generare reddito e quindi che si debbono ripagare da soli.
Non siamo ancora alla piena sostenibilità dell’iniziativa, dunque, ma siamo sulla strada per conseguirla.
Conclusioni
Creare una nuova cooperative in una realtà disagiata come quella di uno slum significa incontrare innumerevoli difficoltà ed ostacoli. E’ normale che vi siano ritardi e che si debba impiegare molto tempo per risolvere cose apparentemente banali. Le sinergie attivabili da una realtà del genere, pero’, vanno ben oltre il semplice gruppo. Far crescere un gruppo di calzolai e produttori di scarpe in uno slum, infatti, vuol dire attivare una sorta di moltiplicatore capace di coinvolgere nell’attività intere famiglie allargate. Non solo, certe sinergie sono raggiungibili anche con altre cooperative, ad esempio con quelle degli intrecciatori o di coloro che lavorano con le perline. Abbiamo avuto la possibilità di estendere alcuni ordini a queste realtà, sempre a Korogocho, nell’ambito della produzione di borse in pelle che richiedevano componenti intrecciate o decorate. Insomma, una cooperativa ben strutturatra diffonde buone pratiche e tanto lavoro. Ecco perche’ iniziative del genere non sono sempre viste di buon occhio: gli abitanti dello slum sono un serbatoio di manodporea a basso costo da sfruttare brutalmente; se iniziano a lavorare in proprio, a prendere in mano la propria vita, divengono meno sfruttabili. Come al solito, il lavoro conferisce dignità e indipendenza. In questo, almeno, l’Africa non è certo diversa dalla nostra Italia.