Progetto Jacaranda, Korogocho, Nairobi - Kenya
Le scarpe made in Kenya
 

1.1 Informazioni generali
Il progetto è volto ad introdurre la logica delle microattività economiche sostenibili nello slum di Korogocho, a Nairobi (Kenya). In particolare, si tratta di sostenere un progetto che ha già creato un primo gruppo di produttori di calzature e sandali. Il loro mercato è quello interno, in segmenti ben definiti come school and safety shoes (segmenti studiati a lungo, tanto è vero che i primi ordini sono già stati acquisiti). Vi sarebbe, però un ulteriore segmento che potrebbe presentare opportunità più ampie, anche in vista dell’allargamento di quest’esperienza ad altri gruppi nel medesimo ed in altri slum. Si tratta del mercato concernente il turismo internazionale, assai presente in Kenya (rappresenta quasi due terzi del PIL) in Kenya. Il progetto ha elementi di formazione, assistenza tecnica e accompagnamento al mercato, nonché di acquisizione di infrastrutture e attrezzature. La cosa è stata studiata da un team di esperti che ha lavorato più volte in Kenya proprio su questi temi ed è poi stata oggetto di confronto con gli operatori della parrocchia di Kariobangi e della missione di Korogocho. Gli interventi di formazione e acquisizione dei macchinari sono già stati portati a termine, assieme a quelli volti a costituire una posizione di mercato, con l’acquisizione dei primi ordini da produrre. Adesso si tratterebbe di consentire ad alcuni esperti di seguire il gruppo nelle prime fasi di lavoro, in modo da consolidare quanto acquisito sinora. Ma soprattutto si tratta di allargare l’esperienza, come dicevamo, al segmento del turismo internazionale, che compra - negli alberghi e nei centri commerciali presenti nelle località - più frequentate discrete quantità di souvenir, fra i quali figurano calzature da safari e sandali.

1.2 Soggetto  titolare
Il soggetto titolare del progetto è la Rete Radiè Resch, che opera – in questo caso – per conto della missione comboniana nello slum di Korogocho, Nairobi, Kenya.

1.3 Soggetto attuatore
Il soggetto attuatore del progetto e’ la missione comboniana di Korogocho, Nairobi, Kenya.

1.4 Responsabile del Progetto
Responsabile del progetto è uno dei missionari: Gino Filippini, da 40 anni in Africa e da oltre dieci anni nello slum di Korogocho. Gino Filippini è l’anima di molte delle cooperative e dei gruppi creati in questi anni nello slum. Vive in una baracca di fango e lamiera, assieme ai più poveri fra i poveri e ciò, agli occhi degli altri slum dwellers, gli conferisce credibilità e rispetto fuori dal comune.



1.6 Localizzazione dell’intervento
Il progetto è localizzato nello slum di Korogocho, una delle più estese baraccopoli di Nairobi, la capitale del Kenya. A Korogocho vivono, in condizioni estremamente disagiate (si trova sul sito di una discarica), almeno 100.000/120.000 persone. Habitat (1), il programma delle Nazioni Uniti sull’ambiente, che ha sede proprio a Nairobi, ha rivelato come oramai il 30% della popolazione delle grandi conurbazioni africane viva in questo tipo di situazione. La dimensione dello slum è caratterizzata da assoluta incertezza in materia di abitazione (si vive in baracche di lamiera e fango e si può essere cacciati in qualsiasi momento), ma anche da mancanza di servizi sanitari di fognature ed infrastrutture di base (niente acqua potabile!). Lo slum è un moltiplicatore di malattie e favorisce fra i propri abitanti il diffondersi di un atteggiamento fatalista e privo di prospettive per il futuro. Un progetto come quello qui proposto, quindi, introduce non solamente nuove attività capaci di generare reddito, ma anche un cambiamento di mentalità basato sulla capacità di vedere il futuro in maniera diversa e di scommettere sulle proprie capacità.

1.7 Obiettivi del Progetto
Il progetto ha come obiettivo generale quello di promuovere lo sviluppo di microattività economiche nello slum, in maniera tale da contribuire in maniera sostenibile alla riduzione dei livelli di povertà e da introdurre una mentalità di impegno basata sulla fiducia in se stessi e nella possibilità di costruire un futuro. Tali microattività si intendono come capaci di generare reddito (sulla base del piano di lavoro definito a suo tempo) e di essere sostenibili sia sotto un profilo economico, che sociale ed ambientale. Nello specifico si tratta di sostenere ed allargare l’esperienza di un piccolo gruppo di microproduttori di calzature capace di operare sul mercato interno del Kenya, ma anche di fornire prodotti al canale di distribuzione destinato al mercato del turismo internazionale che gira nel paese. Tali microproduttori appartengono al settore informale dell’economia e vengono definiti in Swahili Jua Kali, ossia sotto il sole, dato che lavorano all’aperto o in baracche lungo le vie principali dello slum o di alcuni quartieri della città.

1.8 Risultati attesi (qualitativi e quantitativi)


Cooperativa autosufficiente e capace di allargarsi ad altri soggetti.
Accesso ad un nuovo segmento di mercato con migliori prezzi di vendita.
Calzature vendute a maggior prezzo, con profitti da reinvestire nell’attività di base.
Gruppo come modello per altri slum dwellers che vogliano seguire una simile esperienza di lavoro comune
Gruppo che si evolve in una cooperativa (azienda formale)


 

1.9 Principali attività previste/fasi di lavoro
Si prevede di operare lungo quattro filoni di attività:
  • Fase 1: sostegno alla produzione appena lanciata, con un’azione di accompagnamento incentrata sull’assistenza tecnica fornita da un esperto;
  • Fase 2: studio del mercato e contatto con i principali canali di distribuzione del nuovo segmento (turismo internazionale);
  • Fase 3: definizione delle collezioni (che dureranno diversi anni e che quindi costituirebbero un investimento da ammortizzare in un’ottica pluriennale) e acquisizione degli ordini;
  • Fase 4: Produzione e consegna dei primi ordini.
 

1.10  Durata complessiva del progetto e principali fasi di lavoro
Qui di seguito è riportato il cronogramma riferito allo svolgimento dell’intero progetto.

 




1.11  Tipologia di  utenza per il Progetto e stima della dimensione
I beneficiari del progetto sono slum dwellers, cioè abitanti dello slum. Si tratta di persone che vivono nella scala più bassa della gerarchia sociale di Nairobi. Buona parte di loro vengono da una semplice attività di ciabattino, che a malapena consentiva loro di vivere e di campare la famiglia. I livelli di povertà fra questo gruppo sociale sono estremi: 1 o 2 dollari al giorno sono ciò che possono ottenere dal loro lavoro per il sostentamento della famiglia (nonostante la “International Poverty Line” preveda qualcosa come 1 dollaro al giorno a persona). Il problema è che tali attività non sono strutturate in maniera da generare un flusso di lavoro e di reddito costanti. Il progetto serve a dare forma e struttura a questa attività generando un gruppo, regolarmente costituito come un’entità’ giuridica riconosciuta, che potrebbe evolversi in una micro-impresa.
 


(1) Per un’analisi completa del contesto dello slum si vedano i seguenti documenti: UN-HABITAT (2003a); The Challenge of Slums, Global Report on Human Settlements 2003, Nairobi. UN-HABITAT (2003b); Slums of the World : the Face of Urban Poverty in the New Millennium, Nairobi



Progetto Jacaranda - Korogocho, Nairobi - aggiornamento del novembre 2007


Premessa
Il lavoro avviato a Korogocho, su stimolo di Antonio Vermigli della Rete Radiè Resch, sostenuto dalla Rete e dalla Fondazione
Un raggio di luce, reso possibile dall’impegno e dalla presenza continua di Gino Filippini, è giunto ad un punto di svolta. La cooperativa – o meglio il self help group, regolarmente registrato e dotato di una posizione IVA che gli consente di operare come una azienda, pur mantenendo le caratteristiche di un gruppo e quindi di un’organizzazione che ha obiettivi sociali assieme a quelli economici – si è costituita (si veda in allegato il certificate di registrazione), ed ha utilizzato i fondi stanziati a suo tempo dalla fondazione Un raggio di luce per cominciare ad operare sul mercato locale e con alcuni clienti legati al mondo della cosiddetta moda etica. Questa nota riguarda gli sviluppi piu’ recenti ed è un aggironamento rispetto a quanto scritto in precedenza.

Cosa abbiamo fatto sinora
Il progetto originariamente prevedeva di costituire una cooperativa di produttori di calzature e piccola pelletteria a Korogocho, capace di operare sul mercato interno del Kenya. A Korogocho, v’erano infatti diversi micro-produttori di scarpe che operavano a livello informale (si vedano i precedenti rapporti). La cooperativa è stata costituita, la formazione eseguita e le prime attività di produzione sono state avviate. L’idea di fondo era quella di lavorare sul mercato locale. Molti alri progetti volti a sviluppare il mercato internazionale attaraverso i canali piu’ diversi (commercio equo, fiere missionarie, compratori di artigianato africano) sopravvivono con difficoltà e stentano a trovare una propria dimensione di mercato (e quindi una vera e propria sostenibilità). Dunque, decidemmo di operare per avvicinare le grandi catene di distribuzione che operano nel paese (Tuskys, Nakumatt, Enka Rasha) in modo da divenirne fornitori su alcune linee di prodotto (scarpe per la scuola, scarpe di sicurezza, sandali in pelle). Allo stesso tempo, pero’, abbiamo capito che potevamo operare anche sul mercato della cosiddetta ethical fashion. Abbiamo avuto infatti, grazie ad un programma delle Nazioni Unite, la possibilità di aprire un canale di comunicazione con questo segmento. Ethical fashion è un termine che indica una reltà nuova, quella legata all’acquisto di prodotti di lusso sulla base di motivazioni etiche (sviluppo, ambiente, diritti umani). In questa fascia di mercato cio’ che conta è mostrare chiaramente la storia dietro al progetto, o meglio ai produttori, in maniera tale da rendere chiaro il contributo fornito dal consumatore (di un paese ricco). Quindi, prodotti realizzati in Africa, in uno sluma con una storia “certificata” da un ente super partes come le Nazioni Unite, possono entrare in questo mercato. Certamente si trattava di una deviazione dal progetto originario, dato che si trattava di mercato internazionale (i paesi piu’ ricchi in particolare Inghilterra, Olanda, Germania, Francia) e non locale, ma v’era una giustificazione: operare per questo mercato significava acquisire la possibilità di ricevere prezzi adeguati, sviluppare formazione efficace e centrata sul prodotto, ma soprattutto presentarsi sul mercato locale con una nuova immagine. Gli operatori del segmento ethical fashion sono infatti disponibili ad investire nello sviluppo di capacità locali fornendo design ae elementi di sviluppo prodotto. Tali elementi, inseriti nell’ambito del generale processo di assietnza tecnica fornito alla cooperativa, grazie al contributo della Fondazione, sono divenuti dei fattori di sviluppo molto importanti, perché ci hanno consentito di condurre un’attività di formazione/produzione tutta basata sulle richieste del mercato e sul rapporto con un vero committente (che rifiutava le forniture in caso di non conformità o ritardi). Inoltre, tale rapporto ci ha messi in grado di sviluppare nuove linee di prodotto ed una nuova imagine per meglio introdurci sul mercato locale. Ne parliamo piu’ dettagliatamente nel paragrafo su cio’ che resta da fare. Qui vale la pena sottolineare come questo segmento dell’ethical fashion sia un veicolo per aprire le porte del mercato locale.

Le difficoltà incontrate
Lavorare nello sulum significa incontrare difficoltà d’ogni tipo. Vi sono state difficoltà d’ordine logistico ed organizzativo (installare i macchinari in maniera corretta, allacciare la linea elettrica trifase, installare il contatore e cosi’ via). Tanto per fornire un esempio, un bel giorno, nel pieno del lavoro ci siamo trovati senza elettricità: era successo che la cooperativa della porta accanto non aveva pagato la propria bolletta e la compagnia elettrica locale aveva tagliato l’elettricità a tutto l’edificio. Siamo andati a protestare, ma alla fine abbiamo dovuto trovare un accordo con i nostri vicini: abbiamo acquistato prodotti che dovevamo impiegare per la nostra produzione e, invece di pagare il conto dei prodotti, abbiamo pagato la bolletta dell’elettricità. Altre difficoltà sono arrivate dal gruppo stesso. La realtà dello slum è una realtà disagiata anche da un punto di vista umano e sociale. Costruire un gruppo, instaurare un meccanismo di fiducia reciproca e collaborazione, è difficile. Ancora oggi dobbiamo continuamente intervenire per appianare questioni e piccole controversie. In questo, l’aiuto di Gino Filippini è stato determinate. Senza di lui non avremmo fatto un bel niente. Il suo lavoro è il vero lavoro di sviluppo: sostiene il cambiamento della società, favorendo il cambiamento nei rapporti fra le persone.

Ciò che resta da fare
Adesso dobbiamo sviluppare il lavoro volto a consolidare il mercato interno attarverso il know how acquisito lavorando su quello della moda etica. Ancora una volta occorre precisare che il pane quotidiano viene dal mercato interno. Il mercato della moda etica è un veicolo di costruzione di capacità, come già detto, nonché di sviluppo di immagine. I grandi gruppi di distributzione che operano in Kenya, infatti, hanno una pessima opinione in materia di capacità e affidabilità dei produttori locali. Non solo, mai e poi mai penserebbero di avvicinarsi ad uno slum. Chi scrive ha avuto modo di notare piu’ volte lo stupore negli occhi di interlocutori locali, allorquando veniva proposta la collaborazione con una reltà nata in uno slum. Cio’ nonostante, produrre articoli moda per realtà internazionali sta cambiando questa immagine e puo’ contribuire ad aprire un canale di dialogo fra le grandi catene di distribuzione del Kenya e i produttori dello slum. In questo abbiamo ancora da lavorare. In particolare dobbiamo: approfondire i contatti avviati con tutte le realtà di distribuzione locale; sviluppare linee di prodotto in linea con la stagionalità del mercato e con i sgementi piu’ facilemente avvicinabili ; Sostenere il gruppo nel suo allargamento verso l’inclusione di nuovi elementi.
Nessun investimento in nuovi macchinari dovrebbe essere necessario. Qualora si rendesse necessario, si cercherà di ricorrere a forme di microcredito, dato che si tratta di investimenti che debbono generare reddito e quindi che si debbono ripagare da soli.
Non siamo ancora alla piena sostenibilità dell’iniziativa, dunque, ma siamo sulla strada per conseguirla.

Conclusioni
Creare una nuova cooperative in una realtà disagiata come quella di uno slum significa incontrare innumerevoli difficoltà ed ostacoli. E’ normale che vi siano ritardi e che si debba impiegare molto tempo per risolvere cose apparentemente banali. Le sinergie attivabili da una realtà del genere, pero’, vanno ben oltre il semplice gruppo. Far crescere un gruppo di calzolai e produttori di scarpe in uno slum, infatti, vuol dire attivare una sorta di moltiplicatore capace di coinvolgere nell’attività intere famiglie allargate. Non solo, certe sinergie sono raggiungibili anche con altre cooperative, ad esempio con quelle degli intrecciatori o di coloro che lavorano con le perline. Abbiamo avuto la possibilità di estendere alcuni ordini a queste realtà, sempre a Korogocho, nell’ambito della produzione di borse in pelle che richiedevano componenti intrecciate o decorate. Insomma, una cooperativa ben strutturatra diffonde buone pratiche e tanto lavoro. Ecco perche’ iniziative del genere non sono sempre viste di buon occhio: gli abitanti dello slum sono un serbatoio di manodporea a basso costo da sfruttare brutalmente; se iniziano a lavorare in proprio, a prendere in mano la propria vita, divengono meno sfruttabili. Come al solito, il lavoro conferisce dignità e indipendenza. In questo, almeno, l’Africa non è certo diversa dalla nostra Italia.